Settembre è alle porte e si avvicina l’approdo al Senato della riforma Cartabia, il contestatissimo ddl sul processo penale approvato alla Camera – con la fiducia – all’inizio di agosto. E contro la soluzione adottata dal governo – il mantenimento del meccanismo dell’improcedibilità, temperato dalla possibilità di proroghe per alcuni tipi di reato – tornano a farsi sentire i più importanti studiosi italiani di procedura penale, nell’estremo tentativo di evitare che il progetto si trasformi in legge. “Quando il Consiglio dei ministri ha ritenuto di affiancare alla prescrizione sostanziale la prescrizione “processuale” – ricordano Paolo Ferrua, Marcello Daniele, Renzo Orlandi, Adolfo Scalfati e Giorgio Spangherabbiamo evidenziato dubbi di legittimità costituzionale e ragioni di opportunità derivanti da tale impostazione”. Ma il testo approvato, spiegano, “conferma i dubbi già espressi nel nostro documento di fine luglio”. Per questo, in un nuovo appello datato 30 agosto, i professori segnalano “ulteriori criticità del ddl governativo”, auspicando “che nel prosieguo dell’iter parlamentare sia presa in seria considerazione” la possibilità di un ritorno alla prescrizione sostanziale, quella del reato, così come è sempre stata contemplata dal nostro ordinamento.

Ferrua, Daniele, Orlandi, Scalfati e Spangher osservano anzitutto “che il potere assegnato ai giudici di disporre proroghe dei termini” dell’improcedibilità (addirittura all’infinito, nei processi per reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e traffico di droga) finisce per “renderli arbitri della scelta se precludere o consentire la prosecuzione dell’azione penale“. In assenza di parametri prestabiliti, infatti, due procedimenti simili potrebbero essere considerati o meno “particolarmente complessi” – e quindi prorogabili – a pura discrezione del giudice. E “affidare ai giudici una scelta destinata a ripercuotersi sulla concreta perseguibilità dei reati”, argomentano i professori, significa “consegnare alla giurisdizione scelte di politica criminale, in evidente contrasto con il principio di separazione dei poteri”. Ancora, “i termini di prescrizione processuale, affiancandosi ai termini di durata delle indagini preliminari, di custodia cautelare e di prescrizione sostanziale, rischiano di creare un regime temporale privo di coordinamento, incapace di assicurare in modo uniforme la ragionevole durata”.

A spiegare quest’ultimo concetto aiuta il professor Ferrua, luminare del processo penale e professore emerito all’Università di Torino: “Poichè la prescrizione sostanziale si blocca comunque dopo la sentenza di primo grado, nè i pm nè i primi giudici sono motivati a fare in fretta”, chiarisce al fattoquotidiano.it. Ma anche una volta entrati nel territorio dell’improcedibilità, in Appello e in Cassazione, “i tempi concessi sono ormai talmente lunghi (quattro anni in Appello nel regime transitorio, tre a partire dal 2025, ndr) che rischiano di trasformarsi in un incentivo a rallentare, più che uno stimolo ad accelerare”. E se invece all’improcedibilità si arrivasse? “Ci troveremmo di fronte a un ibrido giuridico, una situazione in cui il reato non è estinto, ma lo è il processo, in piena contraddizione con il principio basilare dell’obbligatorietà dell’azione penale. Come si fa a spiegarlo agli studenti di diritto?”. Infine, si legge nel documento, non è nemmeno chiaro se addirittura possa essere “consentita la riapertura del procedimento dopo la sentenza irrevocabile, quando sopravvenga la condizione di procedibilità; come potrebbe accadere a seguito di una diversa e più grave qualifica del reato che implichi termini prescrizionali più estesi”. Insomma, persino il principio del ne bis in idem (nessuno può essere giudicato più di una volta per lo stesso fatto) potrebbe traballare.

Una riforma di questo tipo, conclude Ferrua, “non aiuta in alcun modo a ridurre i tempi del processo: finirà per allungarli o peggio per produrre situazioni di denegata giustizia, in cui il giudizio verrà decapitato senza poter giungere a una sentenza di merito, come invece implicherebbe il principio della ragionevole durata. Nel testo non c’è traccia di interventi sistematici per ridurre le impugnazioni o potenziare i riti alternativi. Pensare di velocizzare il processo imponendo tempi prestabiliti ai gradi di giudizio è come fermare un treno in aperta campagna perché ha accumulato troppo ritardo”. E immagina già le censure che pioveranno sull’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, “da sempre attenta alla posizione delle vittime dei reati, che hanno, anche loro, diritto a un processo giusto”. Sull’approvazione della riforma Cartabia, però, pende una nuova questione di fiducia, motivata dalle presunte esigenze europee legate all’erogazione dei fondi del Recovery: anche se l’Unione, a ben vedere, chiedeva interventi di segno del tutto opposto. E l’ultimo appello dei giuristi punta anche aa evitare un’altra soppressione del dibattito in Parlamento. “Imporre una riforma del genere a colpi di fiducia sarebbe un segno di estrema debolezza“, dice l’accademico. “Vogliamo conservare fiducia nel buonsenso della politica, sperando che qualcuno ci ascolti”.

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