La presa di coscienza è stata improvvisa. E anche dolorosa. In un pomeriggio di fine agosto come tanti la Serie A si è dovuta arrendere alla propria scarnificazione. L’emorragia è diventata troppo copiosa per per essere fermata, lo strato di polvere troppo spesso per poter essere occultato sotto il tappeto. Quello che i broadcaster a caccia di abbonamenti avevano definito il campionato dei campioni d’Europa si è ritrovato senza campioni. Un paradosso. Ma anche un contrappasso. In meno di due mesi la Serie A è stata smontata un pezzo alla volta. Via Antonio Conte. Via Hakimi. Via De Paul. Via Donnarumma. Via Lukaku. E ora via anche Cristiano Ronaldo. Addii difficili da soppesare.

Perché a salutare non sono stati elementi di livello assoluto, ma simboli. Uno dopo l’altro sono scoppiati tutte come bolle di sapone. Gioie effimere, prodigi momentanei. Prima è toccato all’allenatore che per anni è stato definito garanzia delle ambizioni di un club, l’uomo che è riuscito a mettere fine al dominio bianconero di cui lui stesso era stato demiurgo. Poi è toccato a uno dei migliori terzini destri del Vecchio Continente, a uno dei fantasisti più interessanti del torneo, al miglior giocatore dell’Europeo, al al simbolo dello scudetto dell’Inter. E infine a uno dei giocatori più decisivi e iconici della storia del calcio.

Ogni addio se n’è portato dietro un altro. Come in un domino. E mentre in molti si sgolavano per garantire che i club non si stavano affatto indebolendo nonostante le cessioni (la verità la racconterà il campo, fra qualche mese), la Serie A si è ritrovata più povera. Di talento. Di risorse. Di fascino. Quella grandeur raccontata nelle ultime stagioni e culminata con l’impresa della squadra di Roberto Mancini si è già sgonfiata. Anche a causa del Covid, che ha sgambettato la rincorsa del nostro calcio. Il flusso dei capitali internazionali ha raccontato una storia molto più crudele. L’Italia non è più centro, ma periferia. Almeno nel calcio. È Ebenezer Scrooge che continua a ricevere soltanto la visita dello Spirito del Natale Passato. Ancora e ancora e ancora. Senza mai guardare il presente. Senza mai pensare al futuro. La nostalgia per il campionato più bello del mondo, quello che fra gli anni Ottanta e Novanta raccoglieva come figurine i giocatori più forti, è diventata carta moschicida, palude che imputridisce l’idea di sviluppo. La Serie A assomiglia a una famiglia nobile decaduta, una di quelle che continua a vivere nel ricordo dell’opulenza che fu. Senza mai provare a cambiare le proprie abitudini. Dopo ogni vittoria e dopo ogni sconfitta si invocano riforme, si promettono stravolgimenti, si giurano rifondazioni, si invocano tempeste che non superano mai il livello di lieve pioggerellina.

Il vero problema non sta negli addii, ma nel motivo di questi addii. In molti hanno liquidato le dimissioni di Conte a capriccio di un tecnico che è la negazione vivente delle idee di Pierre De Coubertin, di uno che se non ha a disposizione la squadra più forte preferisce non partecipare. Lukaku e Donnarumma sono stati fatti passare per traditori, professionisti che si sono venduti a Chelsea e PSG per (molto più di) 30 denari. Il ritorno di Cristiano Ronaldo al Manchester United (non esattamente la squadra favorita per la vittoria della prossima Champions League) è stato raccontato come una liberazione, come una separazione che lascia quasi indifferenti i tifosi visto che tanto la Champions non è arrivata neanche con il fenomeno portoghese. Una divinità del calcio che prima ha convertito il suo nuovo popolo per poi scoprirsi, nel giorno dell’addio, attorniato da eretici, che ha quasi sperimentato sulla propria pelle una frase contenuta in “Il cane che ha visto Dio”, uno dei racconti più belli di Dino Buzzati: “Che peso la presenza di dio per chi non la desidera”.

Il fatto è che tutti questi idilli sono avvizziti in fretta per lo stesso motivo: le ambizioni dei club erano sottodimensionate rispetto a quelle dei protagonisti. Negli ultimi tre anni il monte ingaggi delle società italiane è diventato più pingue, ma non ha portato vittorie internazionali. Anzi, non ha neanche ridotto il distacco dai club più ricchi d’Europa. Per questo, ora, la Serie A deve fare i conti con sé stessa, deve accettare il fatto di essere diventata una provincia quasi ai confini dell’impero. Mancano soldi. E accrescere il monte stipendi non basta. Servono idee che rendano più sopportabile la carenza di quattrini, che eliminino quell’alea che salda insieme gli introiti derivanti dalla partecipazione alla Champions League e il futuro di un club. Parole ripetute migliaia di volte che si sono stemperate in omissioni e ora devono diventare opere. La presenza di Cristiano Ronaldo e i primi investimenti della proprietà cinese dell’Inter sono stati un’illusione collettiva, ci hanno portato a pensare che forse la forbice con le altre leghe europee non era poi così ampia. Una convinzione che nell’era della pandemia è degradata prima in speranza e che ora si è solidificata nel suo esatto contrario.

Quella che si sta giocando è una Serie A più rinsecchita del previsto, come una camicia tirata fuori dall’armadio dopo anni e che ora veste troppo aderente. Ma il declino può diventare anche punto di risalita. Senza grandi stelle la speranza è quella di far crescere ulteriormente talenti buoni per la Nazionale di Mancini (vedesi Moise Kean alla Juventus). In modo da provare a puntare a qualcosa di impensabile tanto quanto la vittoria dell’Europeo. O almeno in modo da evitare gli spernacchiamenti incassati nell’ultimo decennio. Per riuscirci c’è solo un modo. Smettere di sognare il passato e guardare in faccia il presente. Altrimenti il rischio è finire intrappolati in quel verso di TS Eliot: “Ci siamo troppo attardati nelle camere del mare, Con le figlie del mare incoronate d’alghe rosse e brune, Finché le voci umane ci svegliano, e anneghiamo”.

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