di Ilaria Muggianu Scano

A questo punto dell’anno, a ungere i pioli di chi ha trascorso un’intera estate a mandare curricula nella tenera e puerile speranza nel capodanno bizantino di settembre, chance per buoni propositi e speranza di nuovi inizi è per tantissimi, plurilaureati, dottori e detentori di molteplici master di alto livello, plurilingue con diverse esperienze di lavoro all’estero, lo spettro inossidabile e ipocrita dell’”overqualified”.

L’overqualified, letteralmente “troppo qualificato”, è la spina nel fianco del perfezionista e nasconde scelte aziendali mai univoche in chi decide di respingere il candidato. In altre parole un vero e proprio pretesto che, più che spesso, cela logiche interne ed è buono per ogni stagione, una declinazione per cui è chiaro vinca sempre il banco in maniera inappellabile. Se il giornalista, collaboratore esterno è debitamente qualificato e la redazione rivendica una serie di primogeniture nella speranza seppur remota di una qualche escalation ecco che la risposta al collaboratore sarà un bel timbro di overqualified, come dire, un presente preziosissimo rivestito di carta straccia, perché lo si può dire in melodia ma è in tutto e per tutto un rifiuto in piena regola. Ma è solo un pallido esempio.

Il problema della definizione di overqualified è assai più complesso e articolato e occorre andare per gradi. Iniziamo da una presa di coscienza: esperienza, titoli e specializzazioni nuocciono alla carriera? Si tratta esclusivamente di una crisi del meccanismo che regola la dinamica domanda-offerta, proposta prestazioni-richieste competenze nella dialettica tra lavoratore e azienda? Come emerge dal social network orientato alla collocazione lavorativa, LinkedIn, la dimensione dell’overqualified è oggi diventata un vero e proprio disagio sociale. L’investimento economico affrontato da ogni famiglia per far fronte agli studi, spesso specialistici, di due o tre figli, non gode di alcuna risposta lavorativa e talvolta il demansionamento sarebbe persino la migliore delle ipotesi.

Cosa c’è realmente dietro lo schermo riflesso della presunta sovraqualificazione esibito dai recruiter aziendali? Cosa teme chi trova un candidato iper specializzato? In prima battuta che abbandoni la nave non appena gli capiti un’occasione lavorativa migliore o semplicemente meglio remunerata. In alternativa potrebbe nascere il sospetto che sia insufficiente qualche caratteristica umana come l’attitudine al lavoro di squadra o una qualche carenza di problem solving. Potrebbero paventare una repentina demotivazione sul lavoro. Rischierebbero di assistere a veloci rivendicazioni, titoli alla mano, su una rimodulazione dell’onorario.

La tendenza nel voler reclutare candidati con un modesto titolo di studio per non vedere minacciata la leadership e le dinamiche gerarchiche intra moenia, infine, regge davvero poco, è sufficiente pensare alla scrittrice Michela Murgia che all’epoca del primo best seller Il mondo deve sapere (che ispirò, successivamente, l’opera cinematografica di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti), con gli studi tecnici di scuola superiore mise in crisi l’azienda di elettrodomestici legata al malfunzionamento del relativo call center pubblicitario. Non è in sostanza una questione legata alla domesticazione dei propri dipendenti.

La sovraqualificazione è dunque un rischio a carico dell’azienda? Come risponde la maggior parte dei candidati a un siffatto scenario lavorativo? Nella modalità più annichilente: depauperando i propri curricula. Vengono depennate esperienze all’estero, la conoscenza di qualche lingua, spesso anche il dottorato o l’aver frequentato un ateneo prestigioso. Molto spesso la formazione di oltre un quarto di secolo immolata a semplici e pretestuose logiche familistiche. Dopo le recenti analisi di mercato è inevitabile perdere gli occhi ironici e sarcastici con i quali una volta guardavamo l’epopea del ragionier Fantozzi.

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