Non ci fu alcun “disegno preordinato” per chiudere l’ex Ilva di Taranto da parte di ArcelorMittal, quando nel 2019 la multinazionale franco-indiana dell’acciaio annunciò di voler rescindere il contratto di affitto dello stabilimento ionico firmato nel 2018 con i Commissari straordinari di Ilva in amministrazione straordinaria. Ne è convinta la procura di Milano, che alla fine di maggio ha chiesto l’archiviazione del fascicolo di indagine aperto (contro ignoti) subito dopo l’annuncio della multinazionale di voler lasciare le fabbriche italiane. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e i sostituti Stefano Civardi e Mauro Clerici – all’esito delle indagini affidate ai Carabinieri del Nucleo operativo ecologico e alla Guardia di finanza – hanno infatti ritenuto che “le ipotesi di condotte dolose da parte dei vertici” di Arcelor Mittal “alla base del recesso dal contratto d’affitto degli impianti Ilva e della controversia sollevata con l’amministrazione atraordinaria non hanno trovato riscontro nel quadro probatorio acquisito”. Non solo. Anche il sospetto di diffusione di notizie false ai mercati da parte del gruppo ArcelorMittal in mento alle prospettive industriali degli impianti italiani acquisiti in gestione, al fine di sostenere artificiosamente il titolo sulle piazze europee, è risultato “privo di fondamento”. Tutto regolare, insomma: la volontà di rescindere il contratto da parte della multinazionale dell’acciaio non configurava alcun reato.

La vicenda era iniziata a novembre 2019, quando ArcelorMittal aveva depositato al tribunale milanese l’istanza con la quale chiedeva lo scioglimento del contratto. Il gruppo industriale giustificava la scelta con due motivi in particolare: l’eliminazione dello scudo penale, ritenuto imprescindibile per la gestione di una fabbrica come quella tarantina, e il rischio di chiusura dell’altoforno 2 che, a distanza di anni dalla morte dell’operaio Alessandro Morricella, non era mai stato adeguato rispetto alle prescrizioni imposte allora dalla Procura. Nel procedimento civile era entrato anche l’ufficio giudiziario meneghino, che inizialmente ipotizzava come “la vera causa della disdetta” fosse “riconducibile alla crisi di impresa di ArcelorMittal Italia e alla conseguente volontà di disimpegno dell’imprenditore estero”. A distanza di oltre due anni, però, i magistrati hanno cambiato idea. Le indagini hanno incluso analisi documentali, interrogatori, perquisizioni e persino l’acquisizione delle mail scambiate da diversi dirigenti della società. Ma gli accertamenti hanno riguardato anche le strategie comunicative, i piani industriali e finanziari aziendali nella gestione dell’ex Ilva, le movimentazioni e le giacenze di magazzino. E, da ultimo, lo stato degli investimenti in ordine al piano ambientale da realizzare nel capoluogo ionico.

In merito alla cancellazione dello scudo penale introdotto dal governo Renzi e poi cancellato dal primo esecutivo Conte, le indagini avrebbero dimostrato “la genuinità del tema” sollevato da ArcelorMittal: dallo scambio di mail tra i dirigenti, infatti, i finanzieri avrebbero accertato “la crescente preoccupazione dei vertici dell’affidataria per le modifiche al quadro legislativo“. Lo stesso emerge dallo studio dai verbali del consiglio d’amministrazione e del collegio sindacale dell’azienda. Insomma, Arcelor Mittal considerava la cosiddetta “immunità penale” – intesa come l’esenzione da responsabilità penale e amministrativa dei nuovi gestori durante l’esecuzione del piano ambientale – un “presupposto essenziale dell’operazione di affitto e acquisto dell’ex Ilva”. Il cambiamento del quadro legislativo, insomma, non era una scusa utilizzata per chiudere l’affare Ilva, ma una preoccupazione che secondo i pm milanesi serpeggiava tra i vertici di Arcelor da diverso tempo.

Altrettanto “genuine”, secondo i pm, erano le lamentele mosse dall’impresa ai Commissari straordinari: in particolare i tecnici scelti dal Governo italiano per guidare la fabbrica sarebbero stati “inadempienti” rispetto alla comunicazione sulla situazione giuridica degli impianti. In sostanza, non avrebbero informato i vertici della multinazionale dello stato di sequestro delle cosiddette “collinette ecologiche” costruite con scarti di produzione dell’acciaio negli anni ’70. Altrettanto regolari si sono dimostrate la gestione del magazzino di Ilva – che secondo l’accusa iniziale era stato svuotato per costringere la fabbrica a fermare gli impianti – e anche la costituzione di una centrale unica di acquisto: l’innalzamento dei prezzi con cui questa centrale rivendeva le materie prime alla cellula italiana di Arcelor “è congruente – scrivono i magistrati inquirenti – col generale incremento dei prezzi dei minerali di ferro sul mercato mondiale, a sua volta connesso a fattori esterni”.

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