“Mi dispiace, il tema è interessante e ben trattato, ma in questo periodo la nostra linea editoriale punta a trasmettere agli italiani un messaggio di ripresa, positività e ottimismo.” Ecco la risposta che l’ufficio stampa della mia casa editrice (Chiarelettere) ha ricevuto, nell’ultimo mese, da molte redazioni di programmi televisivi, radiofonici e testate giornalistiche che venivano sollecitate per la promozione di Salviamoci!

Nascondere la polvere sotto il tappeto, questa la strategia di comunicazione adottata da buona parte del sistema mediatico. È vero che fino a qualche settimana fa eravamo ancora fortemente preoccupati, addolorati e comunque distratti dai morti e i contagiati dal virus e sul “come” combattere la pandemia. Eppure i segnali della macelleria sociale che si sarebbe realizzata dopo il lockdown c’erano, e chi doveva percepirli e predisporre rimedi ha tralasciato di ricercarne le cause e di soffermarsi sugli effetti che la pandemia avrebbe avuto sul mondo del lavoro, per incompetenza, inefficienza o comunque rassicurato dalla condizione del “mal comune, mezzo gaudio”.

In queste ultime due settimane si sono risvegliati tutti perché è stato presentato un conto salatissimo alla comunità in termini di licenziamenti ex abrupto. Come ribadito la settimana scorsa, ora tutti si scandalizzano ma, come più volte ripetuto nel libro, siamo stati troppo concentrati sul “come” combattere la pandemia. In parte abbiamo anche tralasciato di ricercarne le cause.

Figuriamoci se ci soffermavamo sugli effetti che avrebbe avuto sul mondo del lavoro e sulle tasche degli italiani. E sapete perché? Perché nell’immaginario collettivo il rapporto tra la pandemia e il lavoro era ed è percepito solo come congiunturale. Ma fin dai primi momenti della chiusura generale dovuta alla diffusione del virus, è apparso chiaro a tutti come la pandemia avrebbe avuto forti ripercussioni sull’economia. Per questo motivo il governo, allora rappresentato dal presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, si mobilitò per adottare immediatamente le giuste soluzioni al fine di tutelare l’economia e in particolar modo i lavoratori. Di fronte a crisi del genere, infatti, è sempre la forza lavoro dei gradi più bassi a farne le spese, in quanto i licenziamenti e i tagli di stipendio sono gli strumenti più veloci a disposizione delle aziende per risparmiare sulle spese.

In tale ottica il 17 marzo 2020 è stato emanato un decreto legislativo (Cura Italia), dove fra tutti gli articoli spicca in particolar modo il numero 46 a tutela, contro il licenziamento. In esso viene specificato il blocco dei licenziamenti di massa messi in atto dal 23 febbraio precedente, cioè dal primo lockdown, ovvero il divieto per le aziende di effettuare il licenziamento dei propri dipendenti per ragioni economiche o di massa (sono però concessi altri motivi, come ad esempio il fallimento dell’azienda). Il decreto, in secondo luogo, specifica che sono state estese le possibilità per le aziende di poter ricorrere agli ammortizzatori sociali anche in deroga (soprattutto alla cassa integrazione), in modo da non avere ripercussioni troppo pesanti sul proprio fatturato.

Il Cura Italia aveva una validità iniziale di sessanta giorni, che sono stati estesi successivamente fino al 31 marzo 2021. Il decreto Sostegni ha poi ulteriormente prorogato il blocco dei licenziamenti fino al 30 giugno 2021 per i lavoratori delle aziende che dispongono di Cig (Cassa integrazione guadagni) ordinaria e Cig straordinaria (soprattutto industria e agricoltura) e fino al 31 ottobre 2021 per i lavoratori delle aziende coperte da Cig in deroga (soprattutto terziario).

Però, come dicevamo, i “segnali” di quello che sarebbe accaduto erano già visibili. Bastava osservare, leggere o ascoltare le denunce che evidenziavano “le modalità” utilizzate, nel periodo comunque protetto, per eludere una legge fatta male (per urgenza o incompetenza) o i cavilli per aggirarla. Nonostante il blocco dei licenziamenti, le aziende hanno trovato e usato molti escamotage per ridurre drasticamente il proprio personale. Com’è stato possibile? Perché c’erano molti casi in cui il decreto non aveva effetto.

Il legislatore ha dimenticato qualcuno per strada. Innanzitutto sono stati esclusi i rapporti lavorativi, sebbene di natura subordinata, che riguardano la collaborazione domestica. In secondo luogo non sono stati tutelati i lavoratori che avevano rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co).

Un altro aspetto interessante da sottolineare è che il decreto non escludeva la possibilità di licenziamento dei dirigenti. Infatti l’articolo parla di tutti i rapporti di lavoro di natura subordinata, ambito in cui invece non rientra la classe dirigenziale, che quindi può essere soggetta a licenziamento per motivi economici. Non solo. Ma anche in questo caso infine non sono mancati i soliti “furbetti”. Moltissimi lavoratori, infatti, nonostante la tutela del decreto, hanno risentito fortemente della crisi per effetto di una confusa interpretazione o delle subdole strategie dei disperati datori che, in molti casi, hanno messo i lavoratori nelle condizioni di ridurre “consensualmente” le proprie ore di lavoro o persino di dare “volontariamente” le dimissioni.

Il più delle volte questi casi sono stati motivati da promesse “verbali” da parte delle aziende di dare un corrispettivo per il lavoro effettuato, di assegnare delle mensilità extra e così via. Ma, come sappiamo, queste non hanno alcun valore legale di fondo, quindi non concedono nessuna garanzia ai dipendenti.

Per non parlare poi della tragedia vissuta dai lavoratori in cassa integrazione. Durante il lockdown molti sono stati costretti a rimanere a casa senza la possibilità di andare al lavoro, ma con la garanzia che sarebbe comunque arrivata la cassa integrazione. Il problema è che spesso questa non è stata erogata per niente, si sono verificati numerosi ritardi e le cifre corrisposte sono state minori rispetto a quanto pattuito.

La sintesi di tutto ciò ce la comunica l’Istat con il suo report occupati e disoccupati: a maggio 2021 il tasso di disoccupazione è salito al 10,5% (+0,8 punti rispetto all’anno precedente) e tra i giovani al 31,7% (+2,7 punti), mentre il tasso di inattività è salito al 36% (+1,1 punti). Un dato, quest’ultimo, sintomatico del grado di fiducia dell’italiano medio sulla possibilità di trovare un lavoro in futuro e che deve far riflettere. Gli inattivi sono quegli italiani che non fanno parte della forza lavoro e non sono né occupati né disoccupati, perché non hanno un’occupazione né la cercano. Come se si fossero convinti che non ci potrà mai essere un’opportunità. “L’ottimismo è il profumo della vita!” come recitava Tonino Guerra in un celebre spot. Sì, peccato che ottimismo e positività non si possano mangiare.

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