di Francesca Garisto*

Per le lavoratrici e i lavoratori la ratifica da parte dello Stato italiano (l. 4/2021) della Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, adottata a Ginevra il 21 giugno 2019, costituisce certamente un traguardo epocale.

Con la sottoscrizione di questa Convenzione, per la prima volta lo Stato riconosce senza reticenze che violenza e molestie sul luogo di lavoro possono costituire violazione dei diritti umani, rappresentano minaccia alle pari opportunità e risultano incompatibili con il lavoro dignitoso.

È finalmente specificato a chiare lettere da una fonte normativa nazionale il diritto di tutti ad un ambiente di lavoro libero dalla violenza e dalle molestie, ivi compresa la violenza e le molestie di genere che si realizza con comportamenti che offendono la dignità, la libertà personale e sessuale, la salute, il diritto al lavoro, tutti valori e beni primari tutelati dalla Costituzione. Si tratta di una delle numerose forme di abuso di cui le donne sono le vittime più numerose e che si fondano sulla vulnerabilità delle lavoratrici, legate al loro lavoro per l’esigenza di salvaguardare la propria dignità, la propria famiglia e i propri figli.

Questi ed altri i motivi che inducono le donne a non segnalare né tantomeno denunciare le molestie subite nell’ambito lavorativo. Secondo l’indagine Istat condotta nel 2016, le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro dal 2013 al 2016 sono 425.000. Solo l’1,2% di queste donne ha denunciato l’accaduto, in tutti gli altri casi hanno vissuto in silenzio questi ricatti. Questi dati sono allarmanti ed è per questo che la ratifica della Convenzione di Ginevra giunge in un momento in cui il riconoscimento da parte delle Istituzioni, della violenza nei luoghi di lavoro e in occasione del lavoro non poteva più attendere.

Ora spetterà allo Stato dare esecuzione a quanto sottoscritto dimostrando quella tolleranza zero cui si fa espresso riferimento nella parte introduttiva dell’atto di ratifica, e allo Stato spetterà per primo applicarla attraverso buone leggi e regolamenti, contratti collettivi e altre misure conformi, incluso l’ampliamento e l’adattamento delle misure esistenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, come l’art.12 della Convenzione richiede.

Fin da ora ci auguriamo che la Convenzione di Ginevra nel nostro paese svolga una funzione deterrente e di orientamento del comportamento; rappresentando il primo passo verso una disciplina unitaria del fenomeno del mobbing, del mobbing di genere e delle molestie sul lavoro in modo da non lasciare alla sola discrezionalità del giudice la tutela di beni primari e, infine, fornendo validi strumenti agli Operatori delle Forze dell’Ordine chiamati spesso ad intervenire o ad acquisire le denunce, troppo spesso poco considerate.

Il riconoscimento, che con la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra lo Stato ha effettuato, dell’esistenza del fenomeno del mobbing di genere offre visibilità a un fenomeno troppo a lungo rimasto invisibile e offre alle lavoratrici la chiave per riconoscere sin dall’inizio i segnali degli abusi che subiscono e consapevolezza dei propri diritti. Riconoscere e affermare che la violenza e le molestie nel lavoro influiscono sulla salute psicologica, fisica, sessuale e sulla vita familiare delle donne, come l’introduzione alla Convenzione precisa, e il riconoscimento che questo costituisce una grave minaccia alle pari opportunità è una grande opportunità di cambiamento.

Ci auguriamo che questa sia l’occasione per far emergere attraverso un lavoro culturale, oltre che normativo, quel sommerso che in Italia è una voragine dura da colmare. Dal punto di vista normativo, oggi in Italia manca una disciplina organica del mobbing, tanto in ambito penalistico quanto in ambito giuslavoristico e la ratifica della Convenzione rappresenta un primo passo in questa direzione.

L’introduzione di una disciplina organica delle molestie sul lavoro, cui lo Stato italiano è ora chiamato, dovrà rappresentare la presa di posizione evidente del legislatore rispetto al disvalore di tali atti, con la conseguenza di orientare il comportamento di tutti i consociati in un’ottica general-preventiva di sensibilizzazione rispetto alla negatività del mobbing e soprattutto del mobbing di genere ed alle sue conseguenze su chi ne è vittima.

Già in questa direzione è intervenuto l’art 40 della Convenzione di Istanbul (Convenzione europea sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, in vigore in Italia dal 9.01.2013) che impone agli Stati firmatari di provvedere a definire e sanzionare le molestie, norma sovranazionale che fino ad oggi non ha trovato esecuzione.

Quanto all’ambito penalistico, fino ad oggi è stato molto difficile offrire una tutela adeguata alle vittime di mobbing in quanto, in mancanza di una disciplina specifica, si può procedere solo laddove il comportamento vessatorio posto in essere in ambito lavorativo integri una fattispecie di reato, quale ad esempio quello dei maltrattamenti in famiglia. Si tratta però di un reato pensato per offrire tutela in altre circostanze, tutela che viene estesa, quando possibile, anche in ambito lavorativo ma solo se in presenza di determinate condizioni, individuate di volta in volta dalla giurisprudenza ed affidate alla valutazione disomogenea della magistratura (per approfondire vedi qui).

La Convenzione di recente ratificata ha, infine, un altro pregio che vale la pena sottolineare, che è quello di offrire protezione a tutte le lavoratrici e lavoratori, indipendentemente dallo status contrattuale, al personale in formazione, inclusi i tirocinanti, gli apprendisti, i lavoratori licenziati, le persone alla ricerca di un impiego e i candidati ad un lavoro e individui che esercitino l’autorità, i doveri e le responsabilità di un datore di lavoro.

Si tratta di una novità importante che considera la tutela della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori il bene primario da tutelare, ancor prima dell’adempimento delle obbligazioni che derivano dai contratti di lavoro. Questo consentirà di portare alla luce vicende torbide e umilianti che coinvolgono perlopiù le donne che lavorano, hanno lavorato o ambiscono a farlo e si potranno stigmatizzare le condotte inappropriate, se non anche violente, di tanti, troppi soggetti, perlopiù uomini ma non solo, che utilizzano il loro potere per disporre della dignità altrui.

* Avvocata penalista, consulente della Cgil di Milano, vice-presidente del Centro antiviolenza Casa delle Donne Maltrattate di Milano, da sempre impegnata nella difesa delle donne vittime di violenza, psicologica, fisica ed economica, che si consuma in ambito “domestico” e nella difesa di uomini e donne che subiscono violenza, in tutte le sue espressioni, nei luoghi di lavoro.

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