In questi giorni in Colombia è in corso una vera e propria strage a seguito dell’intervento delle forze speciali di polizia (Esmad) e dell’esercito contro le manifestazioni convocate contro il governo del presidente Duque. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la decisione di quest’ultimo di proporre una riforma fiscale di netto stampo liberista, ovvero da Robin Hood alla rovescia: togliere ai poveri per dare ai ricchi, comprensivi delle tradizionali oligarchie colombiane e dei nuovi ricchi tra cui anche narcos, in un Paese che produce oltre il 90% della cocaina mondiale.

Vengono al pettine più in generale i nodi di un lunghissimo periodo storico che ha visto i governi in carica, tutti di destra o centrodestra, fare del loro peggio per svendere le ingenti risorse del Paese alle multinazionali e reprimere selvaggiamente ogni tentativo di organizzazione delle classi popolari, sempre più ampie e sempre più escluse. Un Paese sul quale raramente, e neanche in queste tremende giornata di massacri, si sono indirizzati i riflettori della stampa e dei mezzi di comunicazione in genere, specie in Paesi come il nostro, il che può essere spiegato in buona parte col fatto che si tratta della “pietra angolare” della politica statunitense nella regione, per riprendere le parole usate dal giornalista di Repubblica che proprio lunedì scorso ha intervistato la ministra colombiana degli Esteri Claudia Blum.

Le vittime della violenza dell’Esmad (squadra mobile antidisordini) si contano finora nell’ordine di una trentina, e 129 sono i feriti accertati, mentre sono 89 i desaparecidos, 10 i casi di stupro. Da tempo del resto in Colombia è in corso una mattanza dei leader sociali, che si è fortemente intensificata negli ultimi anni da quando è al potere Ivan Duque, il delfino di Uribe, vero dominus della scena politica colombiana da almeno dodici anni ad oggi.

A carico di quest’ultimo vi sono centinaia di procedimenti penali per collegamenti con i paramilitari impiegati nel contrasto della guerriglia e dei movimenti sociali. Restano del tutto inapplicati gli accordi di pace raggiunti nel 2016 colle FARC, principale formazione guerrigliera, molti dei cui ex-combattenti sono stati uccisi negli ultimi tempi.

La pandemia, che nel Paese ha mietuto finora sessantamila vittime, trenta volte di più che nel vicino Venezuela, ha evidentemente costituito un ulteriore fattore di crisi, estendendo ulteriormente la povertà già molto diffusa.

A mio avviso è davvero imbarazzante che, data una situazione del genere, uno dei principali quotidiani italiani abbia scelto proprio lunedì 3 maggio per intervistare una delle principali esponenti del governo Duque, la signora Blum, appunto, che ha dato un quadro del Paese come di idilliaco avamposto dell’Occidente in funzione ovviamente antivenezolana.

E’ del pari significativo che, sulla stessa pagina del suddetto giornalone, sia comparso un intervento dell’oppositore venezolano, Moises Naim, da tempo editorialista dello stesso, che, fra le varie ragioni di inquietudine che presenta a suo dire la situazione latinoamericana oggi, identifica anche il pericolo che, come prevedono i sondaggi, il vincitore delle prossime elezioni presidenziali colombiane, previste nel 2022, sia l’esponente della sinistra Gustavo Petro. Il pericolo per gli Stati Uniti, afferma Naim, è che colla vittoria di Petro gli Stati Uniti perdano il loro più solido alleato nella regione.

Non escludo peraltro che, dietro la scelta di scatenare una feroce repressione contro le manifestazioni popolari in Colombia vi sia proprio una strategia, della destra e del suo vero leader Uribe, che ha come obiettivo una sorta di colpo di Stato preventivo volto ad impedire la regolare effettuazione delle elezioni e comunque l’eventuale vittoria di Petro, oltre che a liberare lo stesso Uribe dall’impaccio dei numerosi procedimenti penali a suo carico.

Evidentemente, per la signora Blum, il modello di democrazia da stabilire in tutta la regione, è quello colombiano, compresi i morti nelle piazze e quelli liquidati in modo selettivo dagli squadroni della morte.

Secondo certi strateghi del primato occidentale sarebbe questo il prezzo da pagare, ancora una volta, pur di mantenere saldo il predominio degli Stati Uniti su questa parte del mondo. Ma si tratta di un predominio che da tempo scricchiola fortemente e tutto fa pensare che si stia avvicinando una seconda ondata di governi latinoamericani attenti alle esigenze dei rispettivi popoli, in particolare delle immense maggioranze da sempre escluse da ogni forma di potere, come pure a quelle della pace e dell’integrazione regionale da rilanciare con forza, dopo la parentesi, destinata a terminare presto, dei fantocci dell’imperialismo come Bolsonaro, Piñera e Duque (alias Uribe).

Occorre augurarsi che sia lo stesso Biden a rendersene conto e a fare i conti in modo costruttivo colla realtà.

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