La Giornata della Terra quest’anno è dedicata al tema ‘Restore Our Earth’, ma dietro la lotta al degrado ambientale e al cambiamento climatico per risanare il Pianeta, c’è anche la necessità di convivere con gli effetti ormai innescati e che sono sotto i nostri occhi. Dalle grandinate su Roma e nel Salento, con danni a ortaggi e frutteti, alla neve in Sardegna, fino al gelo che nel Savonese ha messo a rischio la produzione di miele d’acacia e nel Ravennate ha provocato danni per circa 220 milioni di euro, più pesanti di quelli della primavera 2020. In Veneto, invece, è stata azzerata la produzione di pesco e albicocco e in queste ore si contano perdite per 300 milioni. Tutto questo, mentre la pioggia è arrivata come una manna per le campagne lombarde in siccità da due mesi. Non si chiama più maltempo, ma cambiamento climatico. E gli scienziati ci dicono che non si fermerà: gli interventi di mitigazione in atto sono necessari, ma nei prossimi anni il trend negativo peggiorerà. Da questo dipende il futuro della Terra (e di chi la abita). Oggi la priorità assoluta è ‘adattarsi’ a questa realtà.

LA TERRA “SULL’ORLO DELL’ABISSO” – Tanto più che, in vista del vertice globale convocato dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, nei giorni scorsi è stato pubblicato un rapporto dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, che fa capo alle Nazioni Unite stando al quale, dopo gli effetti temporanei del primo lockdown, il riscaldamento globale sta procedendo “in maniera implacabile” e gli impatti continueranno nei prossimi decenni. L’Onu raccomanda di investire nell’adattamento, mentre il segretario generale Antonio Guterres, che sul tema ha conversato di recente al telefono con il premier Mario Draghi, ha detto a chiare lettere che “il mondo è sull’orlo dell’abisso”. La Commissione Ue ha presentato a fine febbraio la strategia europea di adattamento ai cambiamenti climatici, mentre il nostro Paese è ancora scoperto. “Pianificare non è il nostro forte, in Italia si lavora quasi sempre sull’emergenza, facendo aumentare anche i costi” spiega a ilfattoquotidiano.it Antonello Pasini, fisico climatologo presso il CNR, e autore del saggio L’equazione dei disastri, sui rischi e gli eventi estremi che minacciano l’Italia. Di fatto, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), elaborato dal ministero dell’Ambiente (oggi della Transizione ecologica) dopo una consultazione pubblica nel 2017, è rimasto a lungo in un cassetto, accumulando una serie di ritardi. A gennaio 2021 è partita la Valutazione ambientale strategica (Vas), ma ora bisogna accelerare.

IN ITALIA UN EVENTO ESTREMO AL GIORNO – Nel 2021, racconta Coldiretti “in Italia si è verificato a macchia di leopardo un evento estremo al giorno tra siccità, le cosiddette bombe d’acqua, violente grandinate e gelo in piena primavera che ha distrutto le fioriture compromettendo pesantemente il lavoro delle api”. Acquazzoni violenti, grandinate e tempeste di vento e neve sono aumentate del 274% rispetto allo scorso anno. Cosa ci aspetta? Nel 2020 il Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici ha pubblicato lo studio ‘Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia’, osservando i settori chiave (ambiente urbano, rischio geo-idrologico, risorse idriche, agricoltura e allevamento, incendi) e giungendo alla conclusione che “anche se più ricche e sviluppate le regioni del Nord non sono immuni agli impatti dei cambiamenti climatici, né sono più preparate per affrontarli”. Studi recenti indicano per l’Italia, dal 2021 al 2050, un incremento della temperatura fino a 2°C su scala stagionale, con aumenti più accentuati sulle Alpi e in estate, una diminuzione delle precipitazioni (meno frequenti, ma più intense) durante l’estate al Centro e al Sud e una tendenza all’aumento delle piogge invernali, specie al Nord. “Le proiezioni indicano anche – spiega il CMCC – un incremento di fenomeni estremi, che metteranno ulteriormente a rischio le aree urbanizzate, già vulnerabili in quanto caratterizzate dalla presenza di superfici impermeabili, ricoperte da cemento e asfalto, e da poche aree di carattere naturale (suolo e vegetazione)”. Insomma dovremo convivere con la siccità ed essere pronti alle piogge torrenziali.

SE LA TERRA NON DÀ PIÙ I SUOI FRUTTI – “Piana del Salento e delle Murge sono aree a rischio desertificazione – spiega Pasini – tanto che prima o poi si dovrà pensare di piantare gli ulivi in altura o al Nord, ma lo spostamento va pianificato con 30 anni di anticipo, perché tanto ci mette la pianta a dare i suoi frutti. Un problema che riguarda anche le viti”. Bisognerà piantarle altrove? “Il punto è che in Italia abbiamo vitigni pregiati che sono connessi a un determinato tipo di terreno e il risultato potrebbe non essere così facile da raggiungere”. In Pianura Padana non va meglio. “Nel granaio d’Italia, già nel 2012, nel 2015 e nel 2016 la siccità ha portato effetti devastanti. Nel 2012 – aggiunge il fisico climatologo – si sono stimati 500 milioni di danni per mancati raccolti di mais”. Parliamo di coltivazioni intensive che richiedono tanta acqua: “A poca pioggia e neve, si sono aggiunte le ondate di calore e le micotossine in parte del raccolto che, invece di essere destinato alla pasta o all’alimentazione degli animali, è stato svenduto per il biodiesel”.

LE CITTÀ FRAGILI – Il problema non riguarda solo i campi e l’agricoltura, ma anche le nostre città. Lo hanno confermato, a fine 2020, il rapporto della rete Climate Transparency, costituita da quattordici istituti di ricerca e università e il dossier ‘Il clima è già cambiato’, presentato dall’Osservatorio Città Clima di Legambiente, che ha analizzato dieci anni di eventi estremi, disegnando una mappa dei territori colpiti da fenomeni metereologici estremi tra il 2010 e il 2020. Roma, Bari, Milano e Agrigento tra le città con i maggiori danni, ma dal 1944 al 2018 sono stati spesi 75,9 miliardi di euro per rimediare a quanto provocato da questi eventi. Secondo i dati di Italiasicura, dal 1945 l’Italia paga in media circa 3,5 miliardi all’anno per riparare e risarcire, sei volte la cifra spesa in mitigazione del rischio idrogeologico. “Le città sono estremamente fragili – spiega Pasini – davanti alle alluvioni e agli eventi estremi che aumentano la loro violenza perché c’è più energia in atmosfera. Un fenomeno alimentato dal riscaldamento dei mari”. Ed è per questo che anche in Italia facciamo i conti con le trombe d’aria. Come il tornado che nel 2012 ha causato decide di feriti e una vittima, a Taranto. “Abbiamo studiato ciò che è accaduto – racconta il fisico climatologo del Cnr – partendo dal fatto che in superficie, la temperatura dell’acqua del mar Ionio era più alta di un grado a causa di un’ondata di calore”. Il team si è chiesto cosa sarebbe successo con la temperatura più bassa di un grado (quindi nella norma), ma anche più alta di un grado rispetto a quel giorno. “Nel primo caso – aggiunge Pasini – la tromba d’aria non si sarebbe mai formata, nel secondo caso avrebbe avuto un aumento esponenziale di violenza”. Tutto per un grado in più causato proprio dal riscaldamento globale.

LA MINACCIA CHE ARRIVA DA LONTANO – “In Italia siamo abituati a pensare alle conseguenze di quello che avviene sul nostro territorio, invece il clima è un sistema globalizzato” spiega Pasini. Inoltre si tende a ritenere che lo scenario peggiore sia quello del ‘business as usual’, ossia che le cose non cambino, per esempio, sul fronte delle emissioni “ma in questo modo – aggiunge Pasini – non si tiene abbastanza in conto di alcuni fenomeni che, se si dovessero innescare, avrebbero conseguenze devastanti per la nostra Terra. Ci sono un paio di ghiacciai in Antartide che, se dovessero collassare, farebbero alzare il livello del mare di tre metri, mentre c’è una grande quantità di metano conservata sotto il permafrost della Siberia che, se liberato in atmosfera, avrebbe un potere di riscaldamento pari a 20-25 volte quello dell’anidride carbonica”, abbastanza da innescare uno dei cosiddetti tipping point (punto di non ritorno).

LA PIANIFICAZIONE – Nel frattempo, non possiamo aspettare che le città vengano distrutte o che ogni anno si perdano i raccolti. In Italia, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici ad oggi è un piano di indirizzo che identifica sei macroregioni climatiche e, per ciascuna, indica le rispettive proiezioni climatiche attese secondo due differenti scenari e alcune azioni di adattamento. Il documento è stato sottoposto alla Valutazione Ambientale Strategica (Vas), anche per migliorarne l’efficacia nell’ambito dei processi decisionali. La pubblicazione è prevista per questa primavera e siamo tra gli ultimi in Ue. “Di certo è uno strumento importante – spiega Pasini – ma anche le città devono munirsi di un piano ed è fondamentale che quando si tratta di adattamento di agisca a livello comunale. Perché quando la Protezione civile dirama la nota annunciando 20 centimetri di pioggia, solo chi amministra e conosce la città sa cosa fare. E poi c’è il Piano regolatore che, per ogni città, fa la differenza”. In attesa dell’approvazione del Pnac, alcune regioni quali Lombardia, Sardegna e l’Emilia-Romagna hanno già approvato strategie di adattamento, mentre alcune delle principali città italiane, come Bologna, si sono dotate di strumenti per la pianificazione dell’adattamento.

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