di Carmelo Zaccaria

L’allenatore Cesare Prandelli, dimettendosi dalla Fiorentina, consegna al mondo del calcio, al suo mondo, un irrisolto malessere, attraverso una lettera accorata in cui annuncia la sua autoesclusione, consapevole della sua definitiva retrocessione in un campionato meno asfissiante, in cui poter tracciare nuovi bordi di resistenza. Una lettera che merita un plauso per la dignità ed il pudore che tutti dovremmo avere nel confessare le nostre debolezze, e che pur non rimarginando ancora le cicatrici almeno accarezza il dolce sogno dell’oblio purificatore, reclama una tregua balsamica per un’anima affamata di riconoscenza, perseguitata da un sentimento di impotenza.

Tuttavia manca ancora il confronto, temerario e chiarificatore, con se stesso e con le proprie aspettative deluse, manca l’ammissione degli errori commessi, manca il riflesso di una intrinseca fragilità di uomo sin troppo costumato e sensibile adatto a ricoprire un ruolo di leadership rivelatosi talvolta ingombrante. Nel silenzio del proprio smarrimento saprà certo ritrovare un profilo di vita più coerente alle sue idealità, una dimensione più consona alle sue inclinazioni, come da lui stesso auspicato: “Credo sia arrivato il momento di fermarmi per ritrovare chi veramente sono”. Quando Celestino V fu costretto a dimettersi non accusò il mondo di nessuna nefandezza, sapeva in cuor suo che fare il Papa, per uno che era nato per fare il monaco eremita, non era mestiere ragguardevole.

Cesare Prandelli nel corso della sua carriera è rimasto genuinamente fedele allo status di prezioso gregario, portatore d’acqua del gioco altrui, sin dai tempi della Juventus dove il Trap lo inseriva ad un quarto d’ora dalla fine della partita per far rifiatare la squadra e proteggere lo striminzito vantaggio sull’avversario di turno. Le dimissioni, irrevocabili e sempre giustificate, presentate un momento prima della catastrofe, sono state una sonorità distintiva del suo operato da allenatore oltre che un alert disperato lanciato dal suo spirito inquieto, brandite come arma salvifica per circoscrivere e ammansire l’imbarazzo della resa, l’ombra della disfatta, il timore di essersi caricato un compito troppo lacerante e competitivo per il suo modello di galanteria esistenziale.

Come commissario tecnico della nazionale italiana Prandelli cercò di diffondere una filosofia calcistica impregnata di impegno e sudore, ma anche di vita privata morigerata e responsabile per i giocatori: non bastava essere bravi con la tecnica; per essere convocati bisognava avere anche dei comportamenti irreprensibili nei confronti degli avversari, altrimenti si veniva esclusi dal giro della Nazionale. Un codice etico che però inizia a traballare già da subito, dopo le prime amichevoli prima del Mondiale 2014, per essere poi definitivamente abbandonato, con una clamorosa retromarcia, portandolo ad inserire nel gruppo calciatori, come Balotelli e Cassano, con una naturale predisposizione agli eccessi di ogni genere. Un black-out disastroso di immagine e di risultati da cui Cesare si sottrarrà con le consuete dimissioni e fuga milionaria verso Istanbul.

Non ammettere le proprie insufficienze e prendersela con il mondo che cambia irrimediabilmente, senza preavviso, può nuocere non solo alla carriera ma anche alla propria autostima. Le sconfitte anche se ci accompagnano per tutta la vita non sono mai definitive, anzi spesso sono illuminanti, forse più di certe vittorie che, a volte, sono frutto di combinazioni fortuite ed occasionali, ma che emotivamente tendiamo ad ingigantire nella nostra mente facendoci sembrare ciò che non siamo, riconoscendoci dei meriti che probabilmente non meritiamo.

Adesso per l’uomo Prandelli incomincia l’ora più buia, la battaglia interiore per avere ragione dei propri demoni, per darsi una nuova visione di gioco. Stavolta, a poco servirà buttare la palla in tribuna o rifugiarsi in qualche posto fuori mano, fosse anche la mesta e mansueta Albania.

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