Nessuno è stato in grado di scorgerlo. Eppure era lì da qualche tempo, nascosto in fondo ai suoi occhi. Un velo impercettibile che anneriva le sue iridi, che impregnava le sue parole fino a renderle troppo difficili da pronunciare. Un sentimento etereo e imprecisato che oggi Cesare Prandelli ha provato a definire con due parole: “Assurdo disagio“. È cresciuto dentro di lui negli ultimi mesi, si è gonfiato nel suo stomaco, si è avvolto intorno alle sue tempie. Fino a quando il tecnico non ha deciso di annunciare quello che tutti avevano capito da tempo. È arrivato il momento di dire basta. Con la Fiorentina, per la seconda volta in 10 anni. Ma, probabilmente, con la panchina in generale. In questi ultimi mesi Prandelli ha conosciuto la forma più feroce di solitudine. Quella che ti porta a sentirti isolato anche in mezzo a migliaia di persone. La sua espressione è diventata rassegnata, impotente, stanca. Ha capito che le cose stavano andando male. E che non aveva più la forza di cambiarle. Ha imparato che il potere non logora solo chi non ce l’ha, che il comando sfianca se non è sostenuto dai successi. Il suo sguardo è diventato quello di Sir John Franklin, l’ufficiale della Marina britannica che nel 1845 aveva assistito inerme alla fine della sua spedizione artica, con le sue navi, la Erebus e la Terror, che venivano stritolate e inghiottite dai ghiacci.

La storia di Prandelli è iniziata su un autobus che procede in direzione opposta a quella desiderata. È la storia di un ragazzino promettente che tifa per il Brescia. Solo che vive in provincia, ad Orzinuovi. E lì non ci sono pullman che portano al centro sportivo delle Rondinelle. Però ce n’è uno che arriva fino a quello della Cremonese. Il ragazzino ci sale sopra. E si ritrova avvolto in una maglia grigiorossa. La trama cambia bruscamente quando il ragazzo compie 15 anni. Suo padre si spegne. E lui deve imparare a sbrigarsela da solo. Per lui il calcio è un miraggio, non una professione. Sogna di fare l’architetto, di costruire palazzi e grattacieli. Si ritrova geometra. Perché nel frattempo il calcio è diventato una cosa seria. Dalla Cremonese all’Atalanta. Dall’Atalanta alla Juventus. In bianconero resta sei anni. Non è un titolare, ma dà una mano. E vince trofei. Tre campioni più una Coppa Italia. E la conquista dell’Europa. Prima la Uefa, poi la Coppa dei Campioni. La finale è contro il Liverpool. Lo stadio è l’Heysel. Prandelli gioca sei minuti. Ma soprattutto guarda un’altra volta la morte in faccia. Il successo come una zolletta di zucchero che si scioglie in mezzo a un oceano di lacrime. È lì che la sua vita diventa un dribbling al lutto.

È sul quel prato che impara a non aver paura di lasciare. Né di essere lasciato. Un principio che Prandelli comincerà ad applicare qualche anno dopo. Chiude a 32 anni. Con le ginocchia martoriate e con la consapevolezza che non c’è niente che possa durare a lungo. Un’idea che non lo trasforma in un epicureo, ma che lo zavorra con una malinconia permanente. Insieme alla sua vita cambia anche il suo nome. Quando è nato volevano chiamarlo Cesare. Il padre, invece, preferiva Claudio. Così ecco la mediazione unilaterale. Quando va a registrarlo all’anagrafe decide di non scontentare nessuno. Esce fuori Claudio Cesare. E se da calciatore Prandelli è stato conosciuto come Claudio, ora che il calcio inizia ad insegnarlo tutti lo chiamano Cesare. Peter Parker che diventa l’Uomo Ragno. Bruce Wayne che cambia la sua identità in Batman. Solo che l’eroe non è super. E deve iniziare dalla provincia, da quella periferia che sarà sempre la cifra della sua vita. Lui da Orzinuovi non se ne sarebbe mai voluto andare. Non ha mai cambiato la sua parlata, non ha mai annacquato il suo accento. E anche se in carriera ha allenato club importanti, è stato alla guida della Nazionale, ma non è mai diventato Palazzo. È sempre stato opposizione, alternativa.

Le sue qualità non sono mai state sublimate dalla vittoria di un titolo. È riuscito a costruire bellezza. Ma niente di più. E niente nel calcio sfiorisce più in fretta dei bei ricordi. Il primo vero incarico arriva nell’estate del 1997. Il Lecce gli offre la panchina di una squadra che non ha molte speranze di salvarsi. Anzi, quasi nessuna. La sua squadra gioca bene, fa divertire il pubblico di casa. Ma di più quello avversario. Perché il Lecce perde sempre. 14 sconfitte su 18 partite. È dopo l’ennesima beffa che Prandelli elabora il suo personalissimo codice. Ogni volta che sente di non poter rovesciare la situazione, ogni volta che si convince che la sua presenza è ostativa al benessere della squadra, si dimette. Qualcuno lo chiama coraggioso. In molti lo guardano con sospetto. Perché non c’è niente di più sacro della panchina. Così l’allenatore deve dissimulare, deve intestardirsi, deve andare avanti anche negando l’evidenza. Finché esonero non lo separi. È così per tutti. Tranne che per Cesare. Lasciare non significa ammettere di essere inadeguati, ma essere corretti, sinceri. E i soldi dell’ingaggio sono meno importanti della coscienza. Il presidente Semeraro continua a dirgli ti tornare in sella, ma lui rifiuta. L’anno dopo è a Verona. Ed è lì che va in scena il suo primo capolavoro.

Al primo anno centra la promozione in Serie A. Al secondo chiude nono. Vuol dire Intertoto, significa possibilità di entrar in Uefa. L’Hellas però non ne vuole sapere. Rinuncia. Così Cesare ringrazia e manda un’altra lettera. Ancora dimissioni, ancora un addio. È una rinuncia al paradiso che gli vale un anno e mezzo di purgatorio. Prima B e poi A con il Venezia. Un altro club traballante. Durante un match di cadetteria affronta il Genoa. A fine partita Cesare si lamenta per qualche episodio sfavorevole. Franco Scoglio lo fissa e poi sbotta: “Ecco, mo’ fa l’allenatore anche Prandelli”. Stavolta le cose vanno diversamente. Cesare la lettera la riceve, non la spedisce. E contiene il suo esonero. A 45 anni inizia la sua ennesima vita. Stavolta a Parma. È un biennio di altissimo livello. Con Adriano. Con Mutu. Con Nakata. Con Gilardino. Cesare diventa un allenatore glamour, ma non un santone. Nell’estate del 2004 Capello si trasferisce alla Juventus. La Roma si sente tradita e gli affida la panchina. È l’uomo della rivincita, quello che deve dimostrare a Don Fabio che ha sbagliato ad andarsene, ad accettare offerte più opulente. L’illusione dura un mese.

Cesare sente quel disagio che insinua sotto la sua pelle. Sua moglie Manuela (che morirà nel novembre 2007) è malata. E lui non se la sente di spiegare schemi e movimenti ai suoi giocatori. Riparte un anno dopo. Da Firenze. È la parte più brillante della sua carriera. In cinque anni porta la squadra costantemente tra le prime quattro. Sfiora la finale di Coppa Uefa (uscirà contro i Rangers), e fa tremare il Bayern negli ottavi della Champions League 2010. Claudio però non si limita ad allenare. Ora vuole anche educare. Mutua il terzo tempo dal rugby. È l’inizio di quella correttezza a tutti i costi che travaserà in Nazionale. Fra mille polemiche. Un po’ Fabio Fazio un po’ prete di quartiere, con i suoi modi sempre gentili si ritrova dall’altra parte della barricata. Usa la fionda per affermare la supremazia del fair play in un ambiente che cannoneggia insistentemente che “vincere è l’unica cosa che conta”. Dalla panchina della Nazionale inizia la sua opera di evangelizzazione dei buoni sentimenti. Fa cose notevoli. Tanto in campo quanto fuori. Porta gli Azzurri ad allenarsi a Scampia. Nel 2012 ci rende protagonisti di un grande Europeo.

Elimina Germania e Inghilterra, poi si arrende a un’ingiocabile Spagna. Il Mondiale del 2014 è un disastro. La vittoria contro l’Inghilterra è un’illusione. Costa Rica e Uruguay, con il famoso morso di Suarez a Chiellini, sono l’epilogo amaro di un cammino straordinario. La sconfitta è un gorgo nero che fagocita tutto. Alla fine del suo lavoro resta solo l’idea di codice etico. Una legge ferrea che fa fuori nomi importanti come De Rossi, ma che assomiglia anche alla Fattoria degli Animali di Orwell, dove tutti gli animali sono uguali. Ma alcuni animali sono più uguali di altri. Qualcuno gli rimprovera di non applicare il codice con Balotelli e con Cassano. Eppure Balotelli e Cassano regaleranno a Prandelli i loro ultimi lampi di classe. Dopo l’eliminazione Prandelli ha un solo pensiero. Con una faccia da tecnico ferale più che federale, decide ancora una volta di fare la cosa che reputa giusta. Si dimette. Il resto è una lunga corsa su un terreno scosceso. Galatasaray, Valencia, Al-Nasr, Genoa e Fiorentina. “Sono sicuro che fra due- tre mesi la dirigenza della Fiorentina mi chiederà il rinnovo”, dice a novembre. Andrà in maniera molto diversa. Il disagio non è più sostenibile. La stanchezza troppo forte. Così arrivano le ennesime dimissioni. Il dopo Prandelli si chiama Iachini, che poi era stato il pre Prandelli. Ora per Cesare è arrivato il momento di fermarsi un po’. E di scrollarsi di dosso quel disagio.

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