di Luigi Manfra*

Eurostat ha comunicato che, a gennaio di quest’anno, l’indice annuo dei prezzi al consumo nei Paesi dell’Eurozona ha raggiunto lo 0,9% – dato rimasto stabile, sulla base dei dati preliminari, anche a febbraio. I tassi annui più bassi si sono registrati in Grecia (-2,4%) e Slovenia (-0,9%), mentre i più alti sono stati osservati in Polonia (3,6%) e Ungheria (2,9%). L’inflazione è tornata a salire anche in Italia dello 0,6% nei confronti dello stesso periodo del 2020.

Questi dati sono stati commentati in molti articoli, nei quali economisti e politici di tendenza conservatrice hanno paventato l’avvio di una fiammata inflazionistica. Secondo queste analisi la ragione principale dell’inversione di tendenza nella dinamica dei prezzi andrebbe ricercata nelle manovre fiscali troppo espansive avviate da molti paesi, dagli Stati Uniti all’Europa. Il deficit federale americano nel 2020 ha raggiunto i 3.100 miliardi di dollari, un valore pari al 16% del Prodotto interno lordo. E per quest’anno il senato americano ha dato il via ad altri 1.900 miliardi di dollari di spesa pubblica. Per quanto riguarda l’Unione europea, il debito pubblico del 2020 supera gli 11 mila miliardi di euro, il 101,5% del Pil, in forte aumento rispetto all’85,9% del 2019, circa 1.100 miliardi di euro in più.

A tale proposito il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, in una recente intervista, ha affermato che l’inflazione aumenterà in maniera sensibile nel corso del 2021 a causa della fine del ribasso temporaneo sull’Iva, attuato dalla Germania lo scorso anno, e alla nuova tassa sulle emissioni di CO2. Anche l’Ifo, Institute for Economic Research di Monaco, ha ipotizzato che il tasso di inflazione in Germania, a fine 2021, possa raggiungere il 3%. Di parere contrario appaiono, invece, altre voci in Europa come si evince da un recente articolo pubblicato dal Sole 24 ore. “Ci sono molti elementi che indicano come il prossimo rialzo dell’inflazione sarà di breve termine e non ci sarà un vero effetto di trasmissione in corso dagli Usa”.

La Bce, ad esempio, prevede un’inflazione media dell’1% quest’anno, che salirà a l’1,4% nel 2023, ancora ben al di sotto dell’obiettivo del 2%. Anche il presidente della Federal Reserve Jerome Powell ha di recente dichiarato che un po’ di inflazione è sicuramente in arrivo, ma sarà temporanea e non richiederà una politica monetaria più restrittiva. E, infatti, ha portato i tassi di interesse vicino allo zero con un pacchetto di misure straordinarie a sostegno dell’economia, ed ha comunicato che terrà basso il costo del denaro nei prossimi anni per rendere più agevole la restituzione dell’enorme massa di debito pubblico, alleggerendo in tal modo il costo degli interessi sul bilancio pubblico. La piena occupazione, obiettivo principale perseguito dalla Banca Centrale americana in questa fase, resta ancora molto lontana.

In realtà, al di là dei numeri, è una battaglia politica quella che si sta svolgendo. I liberisti, che di fronte alla pandemia hanno dovuto accettare, loro malgrado, una espansione della spesa pubblica di dimensioni rilevanti, hanno utilizzato i primi sintomi inflazionistici per invocare una riduzione della spesa in deficit. Ma è in Europa più che altrove, dove economia e politica si ispirano ai principi liberisti, che la polemica è più aspra. La stessa architettura istituzionale dell’Unione monetaria europea è ispirata al libero mercato al punto che la Banca Centrale, totalmente indipendente dai governi, ha per statuto l’obiettivo di controllare l’inflazione, ma non di perseguire la piena occupazione come fanno tutte le Banche centrali del mondo. Inoltre la politica fiscale degli Stati europei è subordinata al Patto di stabilità che impone un controllo della Commissione europea sulla spesa pubblica in deficit degli Stati membri.

Da quando l’Europa si trova ad affrontare la grande crisi indotta dalla pandemia, il Patto di stabilità è stato sospeso per consentire ai paesi europei di indebitarsi senza limiti per dare un po’ di respiro all’economia. Mentre nel resto del mondo, a partire dagli Stati Uniti, si è intervenuto con politiche fiscali e monetarie espansive molto rapidamente, nell’Unione Europea i governi, irretiti da regole scritte trent’anni orsono sulla base della teoria liberista, si sono trovano impreparati a rispondere all’emergenza. Soltanto di recente, con il Recovery Fund, si è dato il via ad un embrione di politica fiscale comune europea, mal digerita dai paesi europei rigoristi e da questi considerata provvisoria.

Inoltre, nel novembre scorso il presidente dell’Europarlamento David Sassoli ha lanciato una proposta che ha suscitato aspri dibattiti nel mondo accademico ed economico. Cancellare la quota di debito acquistata dalla Bce dall’inizio della pandemia, per l’Italia pari a circa 530 miliardi. A questa richiesta è seguito poi un appello di oltre 100 economisti, tra i quali Thomas Piketty, a sostegno di questa iniziativa.

La battaglia futura su cui l’Europa si giocherà la sua sopravvivenza è se, una volta finita la pandemia, si tornerà ai consueti schemi previsti dal Patto di stabilità, oppure si procederà ad una revisione radicale di questo Patto.

*Responsabile progetti economici-ambientali Unimed, già docente di politica economica presso l’Università la Sapienza di Roma

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