Sono migliaia le vite – quasi sempre di donne – letteralmente distrutte dal fenomeno del revenge porn.

Inizia sempre allo stesso modo: una foto, un video, un frammento di intimità rubato o, semplicemente, catturato consensualmente da uno smartphone nell’ambito di un gioco di coppia, di un momento di libertà sessuale, di un atto d’amore che finisce nel web, nella più grande piazza pubblica della storia dell’umanità, solitamente per colpa di un uomo che sceglie di vendicarsi così di un abbandono o che, per machismo digitale decide di condividerlo con qualcun altro fregandosene e travolgendo quella consegna di segreto, riservatezza, privacy ricevuta dalla protagonista femminile della foto o del video.

Il resto lo fa una società ineducata al rispetto delle altrui libertà, incapace di accettare l’idea che una donna – o anche un uomo – possa esprimere il suo amore o la sua libertà sessuale anche davanti a uno smartphone e pronta a emettere giudizi morali affrettati, bigotti e bacchettoni nei confronti della vittima condannandola alla gogna mediatica anziché stringersi attorno a lei.

Inutile, triste, drammatico mettere in fila le storie delle tante donne che hanno scelto di togliersi la vita non riuscendo a convivere con tanto dolore come Tiziana Cantone, la ragazza di Mugnano morta suicida, o che hanno visto la loro vita andare letteralmente in frantumi, perso il lavoro, gli affetti, la libertà di uscire di casa come la maestra torinese protagonista di una delle più recenti pagine di cronaca italiana al riguardo.

Basta, probabilmente, rinviare alla bellissima – ma difficile da leggere fino in fondo senza avvertire un senso di opprimente sofferenza nell’anima – inchiesta del New York Times di Nicholas Kristof, intitolata “Le ragazze di PornHub” e dedicata a storie di donne finite a fare le prostitute perché tali considerate comunque dalla società dopo la pubblicazione non consensuale di un loro video destinato a restare privato o a convivere con la paura che i loro figli, una volta diventati adolescenti, potessero imbattersi in un loro video su una delle tante piattaforme porno che popolano il web.

Purtroppo, questi drammi accadono di continuo, ogni ora nel mondo, da qualche parte, c’è almeno un video di contenuto sessuale di una donna che finisce online contro il suo volere e spesso a sua insaputa per le ragioni più diverse, tutte, naturalmente, egualmente odiose.

Impossibile dare un numero puntuale al fenomeno perché, drammaticamente, il pudore, la vergogna, la paura di una seconda condanna dovuta al giudizio sociale e alla gogna mediatica blocca migliaia di donne e qualche uomo dal denunciare la violenza subita.

E si tratta di una violenza atroce senza che l’immaterialità della condotta – rispetto a quella di una classica violenza sessuale – valga ad alleviarne l’intensità perché, anzi, le conseguenze di questa violenza sono più pervasive, più persistenti, permanenti proprio come i segni di una violenza sessuale fisica nell’anima, nella testa, nella vita di una donna.

Il nostro Paese dal 2019 si è dato una legge per contrastare nella maniera più efficace possibile il fenomeno e scongiurare il rischio che i violentatori digitali la facciano, come troppo spesso accade, franca.

Ma non basta.

Abbiamo tutti – gli uomini innanzitutto – il dovere di fare di più o almeno di provarci.

Lo abbiamo come Autorità pubbliche, lo hanno le società private specie se sulla condivisione e circolazione dei contenuti attraverso i quali si violentano le donne macinano profitti miliardari, lo ha il sistema educativo che, naturalmente, dovrebbe fare in modo che nessun uomo trovi accettabile rendere pubblico un video nato per restare privato o, addirittura, rubato alla sua vittima.

È in questo contesto, in questa dimensione, in questa prospettiva che dal prossimo 8 marzo, la festa delle donne, il Garante per la protezione dei dati personali, in collaborazione con Facebook ha deciso di rendere disponibile a donne e uomini che temano di poter essere vittima di episodi di questo genere un nuovo strumento che consenta loro di ottenere, almeno – con i limiti di un’iniziativa che è ancora sperimentale, pilota, pionieristica – di poter impedire a chicchessia, senza il loro permesso, di pubblicare su Facebook e Instagram quel video o quella foto nati per restare privati e che potrebbero distruggere loro la vita.

Il procedimento sarà, speriamo, semplice, immediato, accessibile sia dal punto di vista umano che da quello tecnologico: si tratterà di indirizzare una segnalazione al Garante attraverso un apposito modulo senza neppure inoltrare il video o la foto che si teme possa essere usato per la violenza, lasciare che il Garante verifichi almeno sommariamente che il rischio è concreto, reale, effettivo e, quindi, utilizzando un link trasmesso proprio dal Garante, caricare sui server di Facebook il video o la foto in questione.

Al resto penserà quella stessa tecnologia che, a seconda di come la si usa, è buona o cattiva: il video o la foto verrà trasformato in un codice inintellegibile all’occhio umano ma capace di fare in modo che nessuno possa caricarlo su Facebook o su Instagram.

È poco, lo sappiamo. Non basta ancora. È un sistema imperfetto e ancora sperimentale che, probabilmente, non riuscirà a impedire la pubblicazione di qualsiasi video o immagine che pure meriterebbero di essere bloccati ma è un primo passo, un esercizio di utilizzo del lato buono della tecnologia.

E, poi, non bastano solo Facebook e Instagram, il revenge porn distrugge la vita delle donne anche – e, anzi, forse, soprattutto – attraverso altri siti, piattaforme e servizi.

Naturalmente è vero, non basta ma la speranza è che rotto il ghiaccio, imposta l’idea che la tecnologia può essere un’alleata preziosa in questo genere di battaglie di civiltà, magari, anche i gestori di analoghe piattaforme si dichiarino disponibili a fare altrettanto e, così, insieme, potremmo riuscire a scongiurare il rischio che migliaia di vite vengano distrutte dalla violenza di un singolo e dalla incapacità della società di confrontarsi con la libertà sessuale perché, spesso, anche di questo si tratta.

Non stiamo inventando la ruota, analogo servizio, sin qui, ha garantito in maniera silenziosa e discreto, Permesso negato, un’associazione non profit e, forse, qualcuno storcerà persino la bocca davanti a un’Autorità Garante per la protezione dei dati che collabora con un gigante dei dati come Facebook ma la sensazione, la prima – da verificare alla prova dei fatti – è che quando in gioco ci siano diritti e interessi preziosi come quello minacciati dal revenge porn un’Autorità abbia il sacrosanto dovere, nel rispetto delle regole e, ovviamente, della propria autorità, autorevolezza e indipendenza di fare tutto il possibile, anche senza attendere nuove leggi, per schierarsi senza riserve dalla parte dei più deboli.

Il primo passo è fatto, il secondo ora tocca a ciascuno di noi e consiste nello star vicino senza esprimere giudizi affrettati e idioti a chi è vittima o teme di essere vittima di revenge porn senza farla sentire sola ma, al contrario, suggerendole di reagire, segnalare, denunciare, cercare per quanto possibile di riprendersi dal web ciò che sul web non avrebbe mai dovuto arrivare.

È difficile, guai a negarlo, ma non è impossibile e se si uniscono le forze di Autorità, società civile, gestori delle grandi piattaforme si può fare tanto almeno per limitare la circolazione di un contenuto che non dovrebbe aver mai lasciato lo smartphone attraverso il quale è stato registrato.

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