“E’ possibile che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi nella corale riunione degli auguri di fine anno 1991 della Commissione provinciale e nelle precedenti riunioni della Commissione regionale, abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra”. Lo scrivono i giudici del processo d’appello ‘Borsellino quater‘ nelle motivazioni della sentenza emessa il 15 novembre 2019 e adesso depositate in cancelleria. Si tratta dell’ultima “verità giudiziaria” sulla strage di via d’Amelio, in cui il 19 luglio del 1992 morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta. “Le numerose dichiarazioni raccolte dai testi escussi hanno rivelato numerose contraddizioni che non è apparso possibile superare, gettando al tempo stesso l’ombra del dubbio che altri soggetti possano essere intervenuti sul luogo della strage, nell’immediatezza dell’esplosione – scrivono i giudici della corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta nelle 377 pagine di motivazioni – ‘in giacca‘ nonostante la calura del mese estivo e l’ora torrida, non appartenenti alle forze dell’ordine e individuati anzi da taluni agenti intervenuti nella immediatezza come ‘appartenenti ai servizi segreti“. I magistrati sottolineano che “tale ultimo particolare appare ancora più inquietante se si considera che ‘di un uomo estraneo a Cosa nostra ha riferito anche il collaboratore Gaspare Spatuzza, indicandolo come presente nel magazzino di via Villasevaglios, il pomeriggio precedente la strage, veniva consegnata la Fiat 126 che sarebbe stata, di lì a poco, imbottita di tritolo”, aggiunge la corte presieduta dal giudice Andreina Occhipinti con consigliere estensore Gabriella Natale. L’accusa era rappresentata dal Procuratore generale Lia Sava e dai sostituti Antonino Patti, Carlo Lenzi, Lucia Brescia, Fabiola Furnari.

La sentenza ha confermato le condanne all’ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, il primo come mandante, in qualità di reggente della famiglia di Resuttana, ed il secondo tra gli esecutori della Strage di via d’Amelio del 19 luglio 1992. Condannati a 10 anni di carcere per calunnia anche i ‘falsi pentitiFrancesco Andriotta e Calogero Pulci, che avevano confermato molte delle menzogne riferite da Vincenzo Scarantino (per cui il reato di calunnia è stato prescritto): è il più grande depistaggio della storia italiana ed è stato smontato solo dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. “La strage di via D’Amelio – continua la sentenza depositata dai giudici nisseni – rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il Maxiprocesso“. Nello specifico secondo la corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, “ogni tentativo della difesa di attribuire una diversa paternità a tale insana scelta di morte e terrore non può trovare accoglimento, potendo, al più, le emergenze probatorie indurre a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti o gruppi di potere interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta”.

“Ma tutto ciò – dicono – non esclude la responsabilità principale degli uomini di vertice dell’organizzazione mafiosa che, attraverso il loro consenso tacito in seno agli organismi deliberativi della medesima organizzazione, hanno dato causa agli eventi di cui si discute”. Per i giudici della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta sottolineano anche che “non si hanno elementi in grado di adombrare profili di erroneità nella ricostruzione del momento deliberativo della strage e nella configurazione della ‘paternità mafiosa della stessa“. “Non è sufficiente che il proposito di rendere dichiarazioni calunniose sia stato ingenerato nell’imputato Vincenzo Scarantino – continua la sentenza – da una serie di discutibili e inquietanti e iniziative poste un essere da alcuni investigatori che hanno esercitato in modo distorto i loro poteri, con il compimento di una serie di forzature, tradottesi in indebite suggestioni e nella agevolazione di una impropria circolarità tra diversi contribuiti dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà”. Per il depistaggio delle prime indagini sulla strage Borsellino sono attualmente a processo i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia, aggravata dall’aver favorito Cosa nostra.

Secondo la corte d’Assise d’Appello nissena, poi, non ci sarebbe un collegamento tra la Trattativa Stato-mafia e la morte di Borsellino, contrariamente a quanto sostenuto dalla corte d’Assise di Palermo nel processo concluso nel 2018 per mafiosi, ufficiali dei carabinieri e politici. “Non può condividersi l’assunto difensivo secondo cui la ‘Trattativa Stato-mafià avrebbe aperto “nuovi scenari” in relazione alla “crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali” e al possibile collegamento fra “la stagione degli atti di violenza” e l’occasione di “incidere sul quadro politico italiano” con riferimento a coloro che “si accingevano a completare la guida del paese nella tornata di elezioni politiche del 1992. Invero, gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva”. Per i giudici nisseni, poi, “è anche logico affermare che vi sia stata una finalità di ”destabilizzazione’ intesa ad esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa che aveva fino a quel momento attuato una drastica politica di contrasto all’espansione del crimine organizzato mafioso”, scrivono i giudici. I magistrati considerano le indagini sulla strage avvolte ancora dai “coni” d’ombra: “Le emergenze probatorie acquisite nel procedimento costituiscono singoli pezzo di un mosaico che, nel suo complesso, continua a rimanere in ombra in alcune sue parti. Basti pensare alla ‘scomparsa misteriosà dell’agenda rossa del magistrato e alla ricomparsa della borsa stessa in circostanze non chiarite nell’ufficio di Arnaldo La Barbera”.

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