Washington ha deciso di “punire” Ankara per l’acquisto dalla Russia dei sistemi di difesa missilistica S-400, concluso oltre un anno fa, varando l’imposizione di sanzioni alla Turchia nell’ambito del Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA), annunciato lo scorso 14 dicembre. Si tratta della prima volta che le sanzioni americane vengono imposte su un Paese alleato, tra i principali membri della Nato, e della seconda volta in cui si sanziona l’acquisto delle batterie S-400 (il primo caso fu la Cina).

Se l’omicidio dello scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh, del quale almeno tre ufficiali dell’intelligence americana erano al corrente, secondo il New York Times, era da ascriversi a una logica incendiaria ed ostruzionista che l’amministrazione americana uscente, guidata da Donald Trump, intende alimentare con l’obiettivo di indebolire in partenza le prerogative – nel caso specifico, un nuovo accordo sul nucleare iraniano – del prossimo governo Biden, la decisione di imporre sanzioni sulla Turchia sembra seguire una logica opposta, che potrebbe essere definita “riparatrice”. Forse, un tentativo di anticipare le mosse del prossimo presidente, erodendone quindi la portata potenziale.

Da una parte, infatti, Joe Biden ha più volte definito il presidente turco Recep Tayyip Erdogan un “autocrate”, facendo più volte riferimento alla necessità di perseguire con la Turchia una linea più dura di quella seguita da Trump nei suoi anni di mandato e per la quale in molti negli Stati uniti gli hanno imputato accondiscendenza rispetto alla condotta turca nella regione. Dall’altra lo stesso Congresso americano, sia tra i Repubblicani che tra i Democratici, ha fatto registrare nel corso degli ultimi anni una crescente insofferenza verso la politica estera di Ankara.

Le sanzioni sono dirette in particolare contro la Presidenza delle industrie della Difesa (Savunma Sanayii Başkanlığı, SSB), una istituzione che si occupa dell’approvvigionamento militare, dell’export e dello sviluppo del comparto Difesa, con l’obiettivo indiretto di limitare l’influenza russa e spingere Ankara a fare un passo indietro.

Aderisce in qualche modo alla realtà il commento rilasciato da Ismail Demir, presidente della SSB, a detta del quale l’agenzia da lui diretta “si stava preparando da tempo ad uno scenario simile, da tempo gli Stati Uniti non ci forniscono quello di cui abbiamo bisogno, si tratta dell’ufficializzazione di una situazione già in essere”. Il SSB oggi gestisce circa 700 progetti per un valore di circa 9 miliardi di dollari, molti dei quali contano su sistemi prodotti negli Stati Uniti e coinvolgono licenze di esportazione, su cui è stato disposto il ban nell’ambito di questo impianto sanzionatorio che colpirà anche Ismail Demir ed i suoi asset.

Il riferimento di Demir è chiaramente al rifiuto americano di fornire alla Turchia il quasi equivalente sistema di missili Patriot, dovuto a una divergenza tra Ankara e Washington sulla indisponibilità della prima a fornire una serie di dati sensibili sui missili stessi e al fatto che solo lo scorso anno gli Stati Uniti, in una prima “rappresaglia” per l’acquisto degli S-400, avevano escluso Ankara dal programma degli F-35.

E, sebbene le sanzioni non colpiscano in modo diretto le industrie militari statali e il settore privato, secondo una fonte citata dal Financial Times la loro portata è “calcolata”, volta cioè a non danneggiare oltre una certa soglia le relazioni militari turco-americane. Nell’ottica turca, è proprio la disponibilità di equipaggiamento per le Forze aeree, oltre a quello dei sistemi di monitoraggio terrestre, a preoccupare. Le sanzioni dovrebbero colpire il 40% circa delle importazioni turche dagli Stati Uniti nel comparto Difesa, con effetti potenzialmente devastanti nel medio termine in settori già vulnerabili.

Per la Turchia è cruciale la manutenzione dei suoi F-16, la possibilità di sviluppare i suoi stealth e il fatto che gran parte dei suoi mezzi militari fanno affidamento su componenti e materiali grezzi o semilavorati di fabbricazione straniera, soprattutto americana (nel 2019, il 45% del budget dell’industria manifatturiera nel comparto Difesa e Aerospaziale è stato speso negli Stati Uniti) ma anche di Paesi che, come nel caso dell’effetto deterrente prodotto dalle sanzioni all’Iran, potrebbero anche rinunciare a concludere affari con Ankara per paura di ritorsioni indirette.

L’industria militare turca, anche per via della appartenenza alla Nato, è in forte espansione ma nei progetti più sofisticati fa ancora affidamento su tecnologie e expertise stranieri che rendono ineludibile un certo grado di concertazione e di coordinamento su alcuni temi strategici, sebbene Erdogan non faccia mistero del desiderio di co-produrre con Mosca gli S-400 (una clausola che entrerebbe in gioco con l’acquisto della seconda partita di batterie), oltre che in generale di rendere l’industria militare turca autosufficiente.

Gli S-400 preoccupano Washington per la loro maggiore efficienza tecnico-operativa (ed il costo molto più contenuto) e non è irragionevole credere che queste sanzioni siano anche un messaggio a Paesi come India e Qatar, coinvolti in trattative per l’acquisto di S-400.

Come sostiene l’analista Metin Gurcan, è possibile che tra i due estremi – la Turchia si sgancerà sempre di più da Washington per avvicinarsi a Mosca, oppure rinuncerà prima o dopo, stritolata dalle sanzioni, agli S-400 e ad altri accordi con Mosca, rientrando “nei ranghi” – si possa prima o poi giungere ad un compromesso che salvi in qualche modo la faccia ad Erdogan e posticipi la questione per l’amministrazione Biden: allentamento delle sanzioni e mantenimento degli S-400 in cambio della promessa di non acquistarne altri e di non attivarli, o di attivarli in situazioni concordate di emergenza per la sicurezza nazionale.

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