Nonostante avesse oltre 60 anni, fosse noto al Mossad almeno dal 2000 e fosse l’unico scienziato nucleare iraniano il cui nome appare in un documento dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (nel 2015), di Mohsen Fakhrizadeh-Mahabadi sembrerebbe impossibile trovare immagini antecedenti il 2018. C’è anche questo elemento, ma non solo, a dare al suo assassinio un’altra gravità rispetto ai precedenti attentati ai danni di ingegneri, fisici ed altri funzionari civili iraniani.

Dopo essere scampato qualche anno fa ad un altro tentativo di eliminarlo, Fakhrizadeh-Mahabadi è stato ucciso il 27 novembre mentre si trovava a bordo di un’auto a circa 70 chilometri da Teheran. In macchina erano stati uccisi altri quattro scienziati iraniani: nel 2010 Masoud Alimohammadi e Majid Shariari (nello stesso giorno anche Fereydoon Abbasi-Davani, sopravvissuto all’attacco), nel 2011 Dariush Rezaeinejad e nel 2012 il 33enne Mostafa Ahmadi Roshan.

Rispetto a loro, però, Fakhrizadeh era anche un Brigadier generale dei Guardiani della Rivoluzione islamica (IRGC), e nel 2018 era stato esplicitamente menzionato – “ricordatevi questo nome” – dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nel corso di una delle conferenza stampa in cui accusava l’Iran di costruire la bomba atomica. Come dopo le altre uccisioni di scienziati iraniani il sospetto, anche di funzionari d’intelligence contattati dal New York Times, cade sul Mossad, il servizio di intelligence israeliano, che in queste situazioni non conferma né smentisce. Non è del tutto da escludere l’ipotesi che abbia appaltato l’eliminazione di Fakhrizaded anche a proxies in Iran, per esempio ad agenti del MeK.

Quella del Mek è una storia oscura e inquietante: nato come gruppo di opposizione allo Shah, dapprima partecipa alla rivoluzione del 1979, poi rompe con le fazioni khomeiniste e combatte a fianco di Saddam Hussein la guerra tra Iran e Iraq (guadagnandosi presso gli iraniani l’appellativo di munafiqin, gli “ipocriti”). In seguito si trasforma in un movimento a metà tra la setta religiosa e l’organizzazione terroristica, compiendo diversi attentati accertati in Iran almeno fino al primo decennio del nuovo millennio. Infine rafforza le sue attività di lobbying internazionale, accreditandosi presso diversi Stati come una “alternativa al regime iraniano”. L’aspetto curioso è che il Mek, oltre ad esser considerato una formazione terroristica in Iran, lo era anche secondo gli Stati Uniti, fino al delisting del 2012. Dopo un periodo in Iraq, oggi hanno il loro quartier generale in Albania.

A far rumore dopo la morte di Fakhrizadeh, vista la statura della vittima, sono state le reazioni – improntate alla promessa di vendetta – della galassia politica e telematica dell’Asse della Resistenza, e più nello specifico di diverse autorità iraniane, come il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, il Capo di Stato maggiore Mohammad Bagheri o il Brigadier generale Hossein Dehghan, consigliere della Guida Suprema Ali Khamenei e prossimo candidato alle presidenziali del 2021: reazioni più vicine a quelle registrate all’indomani dell’omicidio del generale Qassem Soleimani, che non a quelle, più discrete, nei casi degli altri scienziati. Probabilmente perché Fakhrizadeh aveva in campo nucleare un ruolo simile a quello esercitato da Soleimani in campo militare.

É tuttavia opportuno ricordare che per dottrina strategica e organizzazione degli apparati, né il programma nucleare né le capacità di influenza e mobilitazione regionale dell’Iran dipendono dalle conoscenze, dalle abilità o dall’esistenza stessa di una o poche personalità, qualunque sia il loro grado di rilevanza all’interno dell’establishment. La rappresaglia iraniana, diversamente da quanto accaduto dopo l’omicidio di Soleimani, probabilmente non sarà immediata.

Non è chiaro se gli Stati Uniti fossero al corrente dell’uccisione di Fakhrizadeh, data la usuale condivisione di intelligence con il Mossad, ma due aspetti appaiono significativi: in primo luogo l’incontro segreto – negato dalle parti – avvenuto tre giorni fa a Neom, in Arabia Saudita, tra il potente erede al trono Mohammad Bin Salman e Netanyahu (a cui si sarebbero aggiunti il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, e il capo del Mossad, Yossi Cohen), in quella che sarebbe la prima visita israeliana nel Regno. Sono loro a trainare la politica spregiudicata nei confronti dell’Iran, prima dell’amministrazione di Donald Trump.

Il secondo aspetto riguarda proprio il tramonto di quest’ultima – la più in sintonia con Netanyahu -, che dovrà farsi da parte il 20 gennaio. La scorsa settimana Trump, in un meeting con il suo team di Sicurezza nazionale, aveva paventato la possibilità di bombardare la centrale nucleare atomica di Natanz, con l’obiettivo implicito di sabotare la strada che Joe Biden ha annunciato di voler percorrere, verso nuove ma già complicate trattative sul nucleare. Dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti, a cui ha fatto seguito l’omicidio di Soleimani, la popolarità dell’idea di un nuovo accordo, nonché la fiducia nelle amministrazioni americane con cui si è già scottato, sono ai minimi storici in Iran, che nel 2021 eleggerà un nuovo presidente con premesse incandescenti, ed al momento favorevoli ad un candidato ostile alla ripresa dei colloqui.

Convinto durante il meeting a recedere dai suoi propositi, in considerazione degli alti rischi, secondo il Times al presidente americano uscente sarebbero però state presentate “altre opzioni”, rimaste riservate. Due giorni prima dell’assassinio di Fakhrizadeh, alcuni alti gradi delle Israeli Defense Forces avevano riferito al giornalista israeliano Barak Ravid che nelle ultime settimane le IDF erano state sollecitate a prepararsi alla possibilità di un bombardamento americano in Iran prima della fine della presidenza Trump, e ad un conseguente periodo “sensibile” fino al 20 gennaio.

Questo periodo potrebbe essere iniziato ora: l’operazione Fakhrizadeh potrebbe quindi essere un “test” della reattività iraniana in attesa di una operazione militare o, più concretamente, la decisione di eliminare un obiettivo di alto profilo, rischioso per definizione, all’inizio di un orizzonte temporale nel quale si pensa di poter “maneggiare” qualunque conseguenza. O meglio, di farla maneggiare ad altri.

Se è vero che di norma Israele non chiede il permesso a Washington per le sue operazioni militari all’estero, informando l’alleato a fatto compiuto, questo mese e mezzo è una finestra preziosa per il bellicismo di Netanyahu, che in Parlamento non ha ormai nessuna voce critica rilevante nella sua politica ferocemente anti-iraniana ma dal 20 gennaio avrà a che fare con un presidente, Joe Biden, vicino a quello che ha amato meno in assoluto, cioè Obama.

Una vicinanza al 44esimo presidente che si accompagna però alla nota e solida relazione con la stessa Israele – analoga a quella del Segretario di Stato designato, Antony Blinken -, oltre ad un rapporto personale quarantennale con lo stesso Netanyahu. Un potenziale “delitto perfetto” per quest’ultimo (e per Trump): provocare deliberatamente una escalation militare nell’arco di un tramonto lungo un mese e mezzo, costringendo la prossima amministrazione a mettere su un piatto della bilancia la “leggera” riapertura del dialogo con l’Iran e sull’altro la – più pesante, come noto – necessità di “difendere la sicurezza dell’amico israeliano”, in un contesto in cui potrebbe essere già calata l’oscurità.

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