Il veto imposto da ungheresi e polacchi al Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 se fosse inserita la regola che apre alla possibilità di negare fondi europei a governi che violino le regole dello stato di diritto, è un’altra evidente dimostrazione che il vero tallone d’Achille della costruzione europea è il fatto che su temi cruciali per tutti i cittadini qualsiasi stato può mettere un veto. Osservando la storia della Ue, in troppi casi le opportunità di vero progresso sono stati o sono bloccati da questa deleteria disposizione, che esiste fin dal principio della storia comunitaria quando erano solo 6 Stati a farne parte.

Dalle questioni fiscali, a quelle sociali, al clima, alle migrazioni, alle libertà pubbliche e i diritti umani, alla politica estera, a parte delle questioni finanziarie, gran parte di lentezze e blocchi dipendono da questo peccato originario che ha provocato ritardi e veri e propri disastri di inadempienza e inerzia. E poiché per cambiare i Trattati e superare questa situazione ci vuole… l’unanimità è chiaro che siamo in un “cul de sac” che solo una rottura con le regole stabilite attraverso una iniziativa “costituente” da parte del Parlamento Europeo (PE) e di alcuni Stati membri potrà superare. Per ora questa prospettiva non pare imminente ma sarebbe necessaria.

Tornando al caso che qui ci occupa, è importante chiarire che il veto di Ungheria e Polonia non è sul meccanismo di applicazione del criterio dello Stato di diritto ai fondi europei, semplicemente perché quel meccanismo è stato concordato con il PE – che ha rifiutato la proposta di compromesso pessimo della presidenza tedesca e ha tenuto duro – e ha bisogno della maggioranza degli Stati membri, cosa che ha ottenuto qualche giorno fa. Quindi Polonia e Ungheria hanno deciso di bloccare lo strumento che ha bisogno dell’unanimità per riaprire la discussione su quello che interessa davvero.

Può parere davvero paradossale che si sia messa in piedi una tale disputa su un tema che può apparire ovvio. Perché i denari dei contribuenti europei dovrebbero andare a governi che li usano per rafforzare il loro potere e si permettono di toccare elementi essenziali delle loro democrazie, dalla libertà di espressione all’indipendenza dei giudici ai diritti dell’opposizione? Be’ questa è stata finora la situazione e ovviamente i diretti beneficiari si battono con le unghie e con i denti per evitare questa che soprattutto per Orban – che ha fondato il suo potere sulle elargizioni di fondi Ue agli amici – sarebbe una sciagura.

Polonia e Ungheria sono state condannate senza alcuna conseguenza dalla Corte di Giustizia sul tema dei migranti e su altre questioni inerenti ai diritti. Commissione e Parlamento hanno chiesto da anni (2017 e 2018 rispettivamente per Ungheria e Polonia) di iniziare la procedura che secondo l’art.7 potrebbe portare alla sospensione dei diritti di membro della Ue: ma il Consiglio manco mette il tema all’ordine del giorno perché anche questa procedura è sottomessa all’unanimità (meno lo Stato implicato) e quindi è inutile. Insomma i due Stati hanno potuto tranquillamente continuare a smantellare lo stato di diritto a spese Ue. Non sono gli unici peraltro: in Bulgaria e Romania la corruzione domina e nella Repubblica Ceca è provato che Babis il primo ministro usi a suo piacimento i fondi europei.

Vedremo nei prossimi giorni come la disputa verrà risolta se verrà risolta. Il rischio reale è che gli altri governi e la Commissione europea decidano di cedere un pochino (non possono di certo mollare del tutto) sul meccanismo e soprattutto decidere di continuare a chiudere gli occhi sulla situazione nei due paesi e in particolare in Ungheria. Anche se nessuno ne parla, proprio in queste settimane, la situazione dello stato di diritto e dei diritti fondamentali in Ungheria sta peggiorando.

Il ritorno allo stato di emergenza decretato il 3 novembre è stato usato come pretesto per modificare la Legge fondamentale e riformare la legge elettorale. Lo stesso metodo è stato utilizzato durante la prima ondata della pandemia, dove è stato introdotto il divieto di riconoscimento legale del genere e sono state introdotte ulteriori restrizioni alle condizioni di accoglienza dell’asilo. I discorsi di odio e gli altri attacchi contro le persone LGBTI+ stanno diventando sistematici, anche al più alto livello politico.

La settimana scorsa il governo ha proposto di includere nella Legge fondamentale (Costituzione ungherese) riferimenti al sesso assegnato alla nascita, alla famiglia eterosessuale come unica struttura familiare accettata e alla cultura cristiana. Si tratta di una svolta ideologica significativa e di un’enorme rottura per i diritti delle persone LGBTI+. Il governo ha anche proposto nuove norme sui finanziamenti ai partiti e una nuova legge elettorale, entrambe disposizioni che renderanno ancora più difficile per l’opposizione costruire una alternativa a Orban.

Direttamente collegato al tema UE è poi il recente rifiuto di concedere un finanziamento Erasmus+ a un’organizzazione che non rispetta la cosiddetta “legge sulle ong finanziate dall’estero” – nonostante la sentenza della Corte di Giustizia del giugno 2020 che dichiari questa legislazione come una violazione del diritto comunitario: purtroppo la Commissione non si è mossa su questo e il pretesto. I negoziati del QFP sono stati usati come pretesto dalla Commissione per non agire, ma è solo un altro esempio di inerzia che ha permesso a Orban dal 2010 di smantellare la democrazia ungherese.

Come sottolinea la relatrice sull’Ungheria del PE, la deputata verde Gwendoline Delbos Cortfield, questo è un caso particolarmente significativo: stiamo parlando di uno Stato membro che ignora deliberatamente una sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee mentre utilizza ancora i fondi dell’Ue. La mancanza di reazione da parte della Commissione europea dà il via libera al governo ungherese ad un uso improprio dei fondi Ue, ignora la legge e priva molti giovani cittadini ungheresi di accedere alla possibilità offerte ai loro coetanei.

Ci sono inoltre prove di uso non trasparente dei fondi o della loro attribuzione a imprese vicine al potere. Ma la palude di procedure e la lentezza di reazione da parte della UE, intesa come Commissione e Stati, ha contribuito a portarci alla situazione paradossale nella quale ci troviamo ora e alla sensazione di impunità di cui paiono godere i due governi.

Quindi, anche se stavolta Ungheria e Polonia dovessero cedere sul meccanismo per accedere ai fondi, non avremmo risolto né il tema della democrazia in Ue, né quello dell’utilizzo appropriato dei fondi europei. O si affronta il problema alla radice, con una riforma dei meccanismi di decisione della Ue e con una sospensione immediata dei fondi e dei diritti di membro di chi viola lo stato di diritto, o la Ue perderà una parte importante della sua capacità di agire e del capitale di fiducia faticosamente riconquistato in questo anno folle.

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