Giovedì pomeriggio, aula bunker del carcere delle Vallette, a Torino. È in corso il processo Carminius-Fenice nato dalle inchieste della Direzione distrettuale antimafia che, partendo da alcuni episodi criminali avvenuti a Carmagnola, hanno portato a galla un presunto voto di scambio politico-mafioso a sostegno dell’ex assessore regionale Roberto Rosso. Trenta persone, di cui 16 detenute, sono alla sbarra: 45 imputazioni, 400 testimoni, otto collaboratori di giustizia da ascoltare e quattromila conversazioni intercettate agli atti. Dopo la pausa pranzo, magistrati, avvocati, polizia giudiziaria, imputati e parti civili rientrano in aula alle 15.
Un legale, Filippo Arcidiacono, guarda gli schermi per vedere se il suo cliente, Antonio Arone, è presente – in video collegamento – dal carcere di Torino. Non c’è. Un ufficiale di polizia penitenziaria interviene per spiegare che, durante la pausa, è arrivato l’esito del tampone: ha il Sars-CoV-2, è positivo, ma asintomatico, ed è stato riaccompagnato nella sua cella. La procedura è standard: due settimane di isolamento e poi un nuovo tampone per verificare se il virus è sparito. Il difensore chiede di rinviare per legittimo impedimento del suo assistito e il giudice Alberto Giannone, presidente del collegio del Tribunale di Asti (il processo avviene davanti a questo tribunale, ma si tiene nell’aula bunker torinese), non può far altro che rinviare di due settimane: sei udienze già fissate saltano, si va al 16 dicembre. È emerso così, a Torino, il rischio che corrono i grandi processi, in particolare quelli contro la criminalità organizzata, ragione per la quale la procura di Torino invierà una lettera alla Direzione nazionale antimafia e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, guidate da Bernardo Petralia e Roberto Tartaglia, magistrati antimafia.
In verità il Dap con questa vicenda ha poco da fare: se un detenuto è positivo deve stare in quarantena assoluto nella sua cella, senza poter essere trasferito nella saletta adibita alle videoconferenze. Una possibile soluzione può essere trovata solo a livello normativo, come spiega Annamaria Loreto, procuratore capo di Torino. “Il problema esiste, si pone ed è serissimo – spiega in un comunicato – . E, credo, dovrebbe essere affrontato con adeguati strumenti di carattere normativo, di vario possibile rango, al fine di regolarne gli effetti – anche sul punto specifico dei termini custodia cautelare – in modo da non vanificare un lavoro giudiziario che, avendo come obiettivo la decisione finale del giudice, deve procedere, nonostante la gravissima situazione epidemiologica, in tempi ragionevoli, considerando anche quanto sia difficile, nell’attuale contingenza, celebrare i processi e celebrarli in condizioni di sicurezza sanitaria, per tutti i protagonisti”.
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