Razzi sull’Eritrea: sabato sera la guerra che da giorni infiamma la regione etiope settentrionale del Tigray ha superato i confini nazionali, con una pericolosissima escalation che rischia di infiammare tutto il Corno d’Africa. Il leader Debretsion Gebremichael ha confermato all’Afp il lancio di missili sulla capitale Asmara: “Anche le forze etiopi stanno utilizzando l’aeroporto di Asmara”, ha sostenuto. Secondo media locali e fonti diplomatiche contattate dalla BBC, “parecchi razzi” sono caduti nei sobborghi della città. Secondo Reuters, che cita “cinque diplomatici regionali”, “almeno tre razzi sonno stati lanciati sulla capitale eritrea dall’Etiopia”: di questi, “almeno due hanno colpito l’aeroporto di Asmara”. Secondo altre fonti, sarebbe stato colpito anche il ministero dell’informazione. Il governo eritreo nega.

Non è semplice ricostruire i fatti, poiché la regione del Tigray è senza internet e linee telefoniche da quando è deflagrata la crisi. Dal canto suo, l’Eritrea è uno dei regimi più oppressivi al mondo e le informazioni escono sempre col contagocce. In ogni caso, la crisi ha ormai travalicato i confini nazionali, riaccendendo la fiamma del conflitto con l’Eritrea che proprio il premier etiope Abiy Ahmed era riuscito a spegnere, due anni fa, ottenendo per questo addirittura il Nobel per la pace.

Lo stesso Abiy ora ha riacceso le ostilità, decidendo di rispondere alle continue provocazioni tigrine: mentre il mondo guardava alle elezioni statunitensi, il 4 novembre lui inviata truppe verso il Tigray. I tigrini sono la minoranza (6% dei 110 milioni di abitanti, nel secondo paese d’Africa per popolazione) che per quasi trent’anni ha governato l’Etiopia con pugno di ferro e che ha dovuto rinunciare al potere dopo che, nel 2015, enormi manifestazioni di piazza hanno preteso un cambio di regime. Abiy Ahmed, della maggioranza oromo, fino ad allora oppressa, è diventato premier sotto i migliori auspici: ha ristabilito multipartitismo e libertà di stampa, liberato centinaia di oppositori politici, addirittura firmato la pace con l’Eritrea mettendo fine a un lunghissimo conflitto. Un leader illuminato. Almeno, così pareva.

La minoranza tigrina (il cui volto più noto è l’uomo chiave della pandemia, il capo dell’Oms Tedros Gebreyesus, già ministro nel governo precedente) non aveva digerito questi cambiamenti. E quando le elezioni regionali previste per agosto sono state rinviate “causa covid”, il Tigray ha annunciato che le avrebbe tenute lo stesso. E così è stato, in settembre. Una sfida, un affronto che il governo centrale non poteva tollerare. La tensione crescente ha registrato diversi gravi episodi di assalti armati e uccisioni fra il Tigray e la regione confinante dell’Amhara, culminati con l’attacco alle basi militari governative da parte del Tigray People Liberation Front (TPLF), il partito che rappresenta la minoranza tigrina. In risposta, il 4 novembre Abiy ha annunciato l’avvio di una vasta operazione militare che ha bombardato “obiettivi militari” nel Tigray.

Tre giorni dopo, il parlamento regionale uscito dal voto illegale veniva sciolto e Abiy nominava un nuovo presidente regionale. Nel pieno della crisi, il premier rimuoveva anche il capo di stato maggiore dell’esercito, nominava un nuovo capo della polizia federale e sostituiva il ministro degli Esteri. In risposta, il TPLF ha minacciato di attaccare la confinante regione dell’Amhara e anche l’Eritrea. Passando subito ai fatti. L’Eritrea, contro cui l’Etiopia a guida tigrina aveva combattuto una guerra infinita, è ora accusata dal TPLF di sostenere Abiy Ahmed.

Amnesty denuncia stragi di civili nel Tigray e si parla anche di “liste” richieste dalla polizia federale con l’elenco dei tigrini impiegati uffici locali delle Nazioni Unite. La crisi rischia di etnicizzarsi ed estendersi ulteriormente, con 17mila profughi tigrini già rifugiatisi in Sudan. Interessato all’evoluzione della crisi è anche l’Egitto, che da tempo è ai ferri corti con l’Etiopia a causa della Grande diga della Renaissance, costruita sul Nilo Blu e che a regime minaccia di togliere gran parte della portata della acque del fiume essenziale alla vita in Sudan ed Egitto. Un’eventuale amplificazione del conflitto potrebbe avere conseguenze anche sulla confinante Somalia. Insomma, un pericolosissimo crinale.

Le Nazioni Unite e l’Unione africana da giorni moltiplicano gli appelli ad una de-escalation, che per ora paiono del tutto ignorati. Intanto, sei italiani (di cui cinque dipendenti di Calzedonia e un tecnico esterno) sono bloccati a Makallé, il capoluogo del Tigray. Sarebbero al sicuro, in attesa di essere evacuati. L’azienda italiana, che ha una fabbrica proprio vicino all’aeroporto, ha sospeso la produzione.

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