Se tutto va come sembra andare, il nuovo comandante in capo dell’Occidente dovrebbe giungere nella sede regale della Casa Bianca con le tremule sembianze di Joe Biden; l’ottuagenario che Donald Trump – secondo abituale malevolenza – aveva soprannominato “sleepy”, l’assonnato.

A questo punto lo sfinimento dovrebbe avere fine. E solo un inveterato cantore adorante del potere quale Bruno Vespa potrebbe trovare entusiasmante l’indecoroso spettacolo offerto dalle elezioni americane: lo scontro tra un insignificante politico di terza fila quanto di lungo corso, nel migliore dei casi un attempato Jimmy Carter, e un mitomane infantilizzato, bugiardo e narcisista, che aggiunge il tocco tremendistico da fine del mondo tipo Dottor Stranamore a una nutrita galleria di sbiellati: da Ronald Reagan a George Bush jr. Marionette a cui ventriloqui ultra-destrorsi hanno fornito la parola e le strategie più reazionarie (di volta in volta: l’astuto James Baker, il cattivissimo Dick Cheney, il delirante Steve Bannon).

Eppure ci si continua a stupire. Se ne potrebbe fare a meno considerando per quello che è il Dna della “terra dei liberi a stelle-e-strisce”, fin dal tempo in cui prendeva avvio l’esperimento del Nuovo Mondo e la sua mitologia. E come le ultime vicende di cui siamo stati spettatori si sono premurate di confermare.

La confederazione delle 13 colonie, che nel 1789 diede origine agli Stati Uniti d’America, è una straordinaria invenzione dei cosiddetti Padri Fondatori, il nucleo più significativo dei quali era composto da grandi proprietari terrieri (Thomas Jefferson, George Washington, John Adams), creando – come ha scritto lo storico della Columbia University Howard Zinn – “il sistema di controllo nazionale più efficace dei tempi moderni e mostrando alle future generazioni di leader i vantaggi che si ottengono associando il paternalismo al comando”. Ossia “la prefigurazione di una caratteristica duratura della politica americana, che ha spesso visto politici appartenenti alle classi superiori sfruttare l’energia dei ceti inferiori per perseguire i propri scopi”. Quei Padri Fondatori che parlavano di repubblica, mai di democrazia.

Nata come plutocrazia coloniale, quella che viene sistematicamente definita la prima democrazia moderna è continuata a crescere e consolidarsi come regime a due livelli: quello visibile e apparente, con l’aspetto benevolo della “Terra dei Liberi”; quello retrostante – arcigno – della strategia per tenere a bada i ceti popolari a vantaggio delle classi proprietarie. Era così alla fine del XVIII secolo; lo è ancora oggi, come dichiara sorniona la presidente della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi al documentarista Michael Moore di Fahrenheit 11/9: “Siamo tutti capitalisti”. O meglio, l’ideologia della sacralità possessiva è l’elemento che cementa l’intero ceto politico americano, rendendolo indistinguibile sui fini ultimi.

Semmai ci si differenzierà sul come vendersi, fermo restando che i contenuti del prodotto sono assolutamente medesimi. Si tratti di democratici o repubblicani, il lato oscuro dell’antico esperimento nato “tra le maestose sequoie del New England” (Tocqueville) resta immutato. Per cui si scrive per taluni “progressista” ma si legge “gattopardista”; “populisti” per altri, quando si tratta solo di “demagoghi”. Si dice “libertà” ma si intende “proprietà”. Con un continuo gioco delle parti, specie per i presunti riformisti.

Sicché Bill Clinton è il presidente che svende definitivamente i lasciti dell’unico esperimento veramente democratico – il New Deal – liquidando gli strumenti di controllo della finanza (Glass- Steagall Act del 1933) e dando man libera alla globalizzazione finanziaria; il neoeletto presidente Barack Obama va al Cairo ad arringare gli studenti democratici egiziani, per poi confermare la mano libera ai generali guardiani del business petrolifero. Forse si potrebbe persino demistificare il presidente John F. Kennedy, colpito a morte da un misterioso cecchino a Dallas, alla luce delle strane collusioni mafiose del padre miliardario.

Il potere e la politica americana come un gioco di specchi ingannevoli, in cui niente è quello che sembra. Anche se talvolta i grandi illusionisti si prendono il lusso di svelare il trucco. James Madison, futuro quarto presidente Usa, scrisse nel 1787 in una lettera privata a Jefferson: “Divide et impera, il riprovevole assioma della tirannia, è talora l’unica politica che possa consentire di amministrare una Repubblica”.

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