Passata la pandemia la Cina è “un gigante diviso a metà”. Da una parte c’è la popolazione che, soddisfatta della ripresa economica, dimentica le critiche del lockdown. Dall’altra c’è la comunità internazionale che assiste agli attacchi frontali di Donald Trump e non crede ai numeri di contagi e morti dichiarati da Pechino. Eppure, nell’anno del Covid, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, la Cina sarà l’unica tra le maggiori economie mondiali a registrare un Pil in crescita alla fine del 2020, mentre Europa e Stati Uniti arrancano, intralciati da soglie di contagi sempre più preoccupanti. “Quello della ripresa è però un trend che riguarda tutta l’Asia ed è importante ricordare che la Cina poteva poggiare sull’esperienza della Sars del 2003 – spiega Giulia Sciorati, ricercatore per l’Osservatorio Asia di Ispi ed esperta di Cina e relazioni internazionali -. Dopo quell’emergenza sono stati studiati protocolli di gestione sanitari ed economici che per il Covid sono stati prima una base di partenza e poi un vantaggio sui tempi di ripresa. In più Pechino ha avuto una maggiore velocità di reazione perché è uno stato autoritario”.

Proprio per questo la comunità internazionale ha espresso dubbi sui reali numeri della pandemia in Cina, tanto da arrivare a chiedere un’indagine indipendente.
Ci sono state incongruenze su di vittime, malati e tamponi perché, soprattutto nelle prime settimane di emergenza, sono stati cambiati più volte i modelli del conteggio. Cambi che hanno contribuito ad alimentare l’ipotesi che la Cina abbia falsificato i dati. Credo che comunque ci sarà un’indagine da parte dell’Oms: la pressione è forte da parte della comunità internazionale ma anche sul fronte interno.

Al di là delle critiche internazionali, il governo è stato attaccato anche dai cinesi?
Sui social, durante il lockdown, in tanti hanno alzato la voce sulla gestione dell’emergenza sanitaria. Nella fase iniziale, ad esempio, l’accesso agli ospedali per i sintomatici sembrava arbitrario. Noi avevamo i dubbi sulle sfumature del Dpcm, ma nel loro caso era chiaro: lockdown è rimanere chiusi in casa fino a nuovo ordine. È difficile cogliere lo spirito della società civile in un Paese che ha quasi 1,4 miliardi di abitanti, ma possiamo dire che la ripresa economica c’è, specie del comparto manifatturiero, e che i cinesi hanno fiducia nel loro governo.

Stati Uniti ed Europa faticano nella ripresa mentre la Cina riparte, mettendo in campo misure più ridotte rispetto a quelle per affrontare la crisi nel 2008.
Sicuramente hanno influito i protocolli post Sars, ma l’approccio è stato molto diverso: il piano del 2008 era stato anche criticato dall’attuale leadership. La Cina adesso punta alla ripresa con una strategia che non è frutto della pandemia, ma una prosecuzione di quello che era già stato avviato. La linea è quella di promuovere e sostenere i consumi interni più dell’export e il Covid ha permesso di prendere la palla al balzo. Vedremo cosa succederà a fine mese, quando la leadership cinese pianificherà la nuova strategia fino al 2035.

La scelta di puntare sui consumi interni da dove nasce?
Dall’obiettivo di essere meno dipendente dall’esterno, vista anche la guerra dei dazi.

Tanti Paesi, Usa in primis, cercano di convincere le imprese a rientrare dalla Cina o quanto meno a cambiare destinazione. Sta funzionando?
Sì, specie la richiesta da parte degli Stati Uniti di fare trasferire altrove le aziende, ad esempio in Vietnam. Le chiusure e i blocchi vissuti durante il lockdown hanno portato anche a ripensare le produzioni sulla base della prossimità. Asia su Asia, ad esempio, a favore della regionalizzazione. E oggi si è più consapevoli anche dei rischi derivanti dalla dipendenza di un solo Paese.

Come sono cambiati gli equilibri geopolitici della Cina prima e dopo il Covid? Oggi ha un potere di negoziazione maggiore?
No. Sul piano internazionale deve dimostrare di essere affidabile. Oltre agli Usa e all’Europa c’è tutto il sud est asiatico, e in particolare i rapporti col Giappone – che ha recentemente cambiato leadership – e Taiwan.

Il tema adesso è ripristinare la credibilità sul piano internazionale.
Questo è il lascito geopolitico più rilevante della pandemia. La Cina non viene più percepita come un Paese affidabile, in grado di mantenere le promesse. Pechino, nonostante ci siano punti torbidi, sta facendo di tutto per ripristinare quello che ha perso. Lo ha fatto con le donazioni di materiale sanitario, dall’Europa all’Africa, o puntando sulla sostenibilità ambientale. Temi in cui si propone come la potenza che ha più capacità di ogni altro Paese.

E ha tutto l’interesse commerciale per farlo.
Pechino ha alle spalle 7 anni di investimenti per la Nuova via della Seta e vuole che le partnership dall’Asia all’Europa continuino. Vuole evitare, ad esempio, quello che è successo qualche anno fa in Malesia, dove il cambio di leadership ha stoppato gli investimenti, traducendosi in perdita di tempo e denaro su larga scala.

Chi è il partner principale della Cina oggi?
L’Europa, anche se ci sono resistenze da parte europea dopo la pandemia, fomentate anche dalle invettive di Trump.

I suoi attacchi alla Cina sono da mesi al centro della campagna presidenziale.
Pensiamo a tutte le volte in cui Trump ha parlato di “virus cinese”, incluso davanti all’Assemblea Onu, che ha praticamente usato per un comizio. Una cosa mai vista. Nella sua retorica la Cina è “il cattivo” sul piano internazionale. E sui media, oggi, è come se l’Europa venisse spinta a decidere da che parte stare, se scegliere Washington o Pechino. Ma i policy makers sanno che siamo dentro al turbinio delle presidenziali.

Pechino chi spera che venga eletto?
Fino a qualche mese fa avrei detto Biden, ma anche lui è stato costretto ad adattarsi alla retorica aggressiva di Trump. Certo, ci sono molte differenze rispetto alla China policy del presidente, ma con la vittoria il candidato dem eredita uno scontro in corso.

Su quali fronti si gioca la battaglia Usa-Cina?
La pandemia si è inserita nella guerra commerciale partita nel 2015 dall’annuncio del programma Made in China 2025, un piano studiato da Pechino per acquisire la supremazia tecnologica mondiale. Un primato che oggi appartiene agli Stati Uniti e che è a rischio. A quello commerciale e tecnologico si è aggiunto anche il fronte dei diritti umani e libertà politiche, visto che gli Stati Uniti sono entrati nel dibattito su Hong Kong e si sono esposti sui campi di internamento dello Xinjang.

Cosa temono gli Stati Uniti?
Che la Cina diventi la potenza cardine del sistema internazionale.

E la Cina invece di cosa ha paura?
Che l’Occidente le chiuda le porte in faccia, vista la rete immensa di progetti – infrastrutturali, tecnologici, finanziari – che ha avviato in molti paesi.

Sappiamo che il governo cinese controlla tutti i suoi cittadini attraverso telefoni e app. Un aspetto che la pandemia ha fatto deflagrare. Quanto incide questa strategia sullo sviluppo della tecnologia in Cina?
Le tecnologie in Cina sono molto permeanti. Con Wechat è possibile comprare i biglietti del treno, chattare e molto altro. Col QR code paghi alle bancarelle dei mercati. In pratica puoi uscire di casa solo col cellulare e fare tutto. La conseguenza è che sei mappato sempre, dovunque. E il lockdown è stato la massima espressione di quanto la tecnologia, settore per il quale la Cina vuole essere il punto di riferimento internazionale, sia dentro le vite dei cinesi. Parliamo, lo ripeto, di un governo autoritario, mentre noi siamo in democrazia. Le priorità di Pechino sono stabilità dello Stato e del partito e non libertà democratiche. Anche qui, il vantaggio dell’autoritarismo è stata la gestione dell’emergenza, che per noi è stato il vero scoglio da superare. Il potere del governo in Cina ha fatto sì che rientrasse in maniera spedita. Quando da noi è esploso il Covid loro erano già in fase discendente.

Il governo esce rafforzato dalla pandemia?
Sicuramente a livello interno sì, e tutta la fiducia deriva dalla ripresa economica che è alla base della legittimità della leadership cinese e ha sanato anche le critiche della prima fase del lockdown. Ma a livello internazionale Xi Jinping è crollato. Oggi la Cina è spezzata a metà.

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