Per il tribunale, non esisto, non sono mai stata vista, né sentita. Sono state le donne del Centro antiviolenza a darmi la forza di andare avanti, senza di loro non ce l’avrei mai fatta. Eppure ogni donna dovrebbe avere il diritto di essere tutelata nel momento in cui rivela di aver subito violenza e chiede aiuto.

C’è un sentimento di profonda amarezza nelle parole di M. che paga sulla sua pelle già provata dalla violenza del marito, i ritardi di una giustizia che troppo spesso si rivela inadeguata e incapace di applicare pienamente le leggi che puniscono chi commette violenza in famiglia.

M. come tante donne viveva l’incubo di violenze quotidiane tra le mura di casa. Voleva proteggere se stessa e le tre bambine avute con un uomo violento da cui aveva deciso di separarsi. Per questo si era rivolta al Centro Antiviolenza Gea. Le operatrici l’avevano accolta e avevano fatto una valutazione di rischio elevato poi le avevano offerto ospitalità in una struttura protetta. Ma nonostante la denuncia e il pericolo, il tribunale non aveva emesso alcuna misura cautelare contro il marito. Nemmeno l’ordine di allontanamento.

Nel marzo del 2019 M. era stata sorpresa in strada dal marito che l’aveva accoltellata una decina di volte al volto, alla gola, alla pancia, incurante della figlia più piccola che assisteva all’aggressione seduta nel passeggino. M. è sopravvissuta riportando gravi lesioni alle corde vocali, è viva per miracolo. Da mesi è ospite in un struttura protetta, mentre il marito, imputato per tentato omicidio, è stato sottoposto per un periodo all’obbligo di firma e al divieto di dimora ma le misure sono decadute ed ora è a piede libero.

In una situazione di elevato pericolo come questa, come mai non gli sono stati dati gli arresti domiciliari? Nel 2007 a Reggio Emilia, un uomo sparò e uccise il cognato e la moglie che era seguita dal Centro Antiviolenza Non da sola. Ci sono donne che vivono per anni o mesi nella paura, in attesa che la giustizia faccia il proprio corso.

Elena Biaggioni, referente del Gruppo Avvocate D.i.Re spiega che “a determinare la scarcerazione senza nemmeno più l’obbligo di firma e di dimora, sono stati i continui rinvii del processo“. Tutto questo avviene pochi giorni dopo la decisione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che mantiene l’Italia sotto sorveglianza rafforzata in seguito al ricorso alla Corte Europea dei diritti umani per il caso Talpis.

“La Corte di Strasburgo – ha detto Biaggioni – ha chiesto all’Italia di migliorare la valutazione del rischio dopo le denunce per violenza per assicurare alle donne una protezione adeguata come chiede la Convenzione di Istanbul ma quanto è successo conferma quanto la giustizia italiana sia ancora lontana da questo obiettivo. Oggi M. è in protezione grazie al sostegno dei centri antiviolenza e di un servizio sociale attento, non grazie alla giustizia”.

Il 12 ottobre le operatrici del Centro antiviolenza sono salite sui gradini del Tribunale di Bolzano sollevando cartelli per protestate contro l’ennesimo rinvio dell’udienza. Sarebbero state comunque su quei gradini per accogliere M., per farla sentire protetta e per accompagnarla a testimoniare se ci fosse stato il processo, ma l’ennesimo rinvio è stato come una doccia fredda per tutte. Ora si chiedono per quale motivo il marito non ha mai ricevuto un ordine di allontanamento? E per quali ragioni l’uomo che ha cercato di ucciderla è stato giudicato non più pericoloso?

Christine Clingon, presidente Gea ha detto: “Chiediamo ad alta voce che la giustizia si prenda le proprie responsabilità e applichi le leggi che esistono a tutela delle donne che subiscono violenza”. Abbiamo leggi che restano sulla carta mentre il Paese che le promulga viene condannato dalla Corte di Strasburgo e perde credibilità tra le donne sopravvissute alla violenza che chiedono giustizia.

@nadiesdaa

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