Gentile Antonio Marziale,

Lei è sociologo e Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Calabria e per questo le scrivo. Mi riferisco al post in cui si è scagliato contro chi aveva bersagliato di insulti la pagina di Claudio Baima Poma, l’uomo che si è suicidato dopo aver assassinato Andrea, il proprio figlio. Prima di farlo ha esposto alla gogna la ex moglie, colpevolizzandola in un lungo post su Facebook, per non essersi occupata del suo mal di schiena, della sua difficoltà a camminare e del suo male di vivere. Un fiume di rancore navigato da un ego che come un buco nero ha inghiottito la vita del figlio, la vita della ex moglie e qualunque forma di amore.

Quest’uomo ha concluso la sua rivendicazione con la richiesta di avere la scorta di motociclisti al suo funerale, convinto che gli spettasse una qualche forma di tributo; poi ha augurato alla ex moglie di soffrire per il resto della vita.

Mi preme precisare che la canea che lancia insulti sui social disgusta anche me, perché abbiamo altri modi per elaborare vicende che ci turbano e ci toccano per la loro efferatezza. La lapidazione collettiva, seppur virtuale, di persone vive o morte che si macchiano di crimini, sono reazioni primitive che rispondono alla violenza con la violenza. Il femminismo ha sempre insegnato che non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone e quindi dobbiamo trovare altre strade, altre parole. Ma se vogliamo elaborare crimini e violenze che ci turbano, dobbiamo chiamare le cose con il loro nome, guardare con occhi ben aperti ciò che è accaduto, e per la morte del piccolo Andrea e la disperazione di sua madre Iris, dobbiamo parlare di figlicidio e di femminicidio.

L’assassinio di Andrea non è stato causato da un “male oscuro” ma dal rancore che Claudio Baima Poma nutriva contro la ex, come l’assassinio dei gemelli Elena e Diego avvenuto all’inizio dell’estate, non è stato frutto del “dramma di un padre separato” (come scrissero alcuni quotidiani) ma una vendetta consumata da Mario Bressi contro la ex moglie.

Lo psichiatra Paolo Crepet in una bella intervista rilasciata sull’Huffington Post, ha parlato di “un omicidio, frutto di una cultura feudale e di una idea feudale del matrimonio e della figliolanza, in cui l’uomo è il proprietario, non padre, che ha ucciso vigliaccamente il figlio e la moglie nella maniera più terrificante, condannandola a morire lentamente” con un gesto “più violento di uno che ti uccide con un kalashnikov”.

L’origine di questi crimini non è un generico disagio sociale, come lei ha dichiarato nell’intervista rilasciata all’agenzia di stampa Dire, e nemmeno la disoccupazione; la matrice risiede nelle relazioni asimmetriche tra i generi e nella pretesa che le donne siano oblative e sacrificabili all’infinito e quando si sottraggono al loro ruolo devono essere punite. Come Garante dell’Infanzia e come sociologo dovrebbe conoscere molto bene queste dinamiche.

Si può provare pietà e compassione per quei genitori, padri o madri, che uccidono figli sofferenti per mali incurabili o per handicap gravissimi che rendono l’esistenza un inferno, o per chi uccide in preda ad una follia che tronca ogni legame con la realtà ma per chi uccide lucidamente per vendetta forse l’unica risposta giusta che possiamo dire è restare distanti.

Nella sua invettiva contro “gente disgraziata che commenta con spirito saccente il dramma di un uomo che in preda alla depressione ha ammazzato il proprio figlio e si è suicidato” e contro “gente senza un minimo di dignità che si prende la briga di assolvere o condannare un uomo in preda ad un male oscuro” o “gente di merda che si erige ad interprete dello stato d’animo di un uomo che è arrivato a tanto”, ha dimenticato di esprimere compassione per un bambino che aveva un vita da vivere prima di essere spazzata via da un proiettile sparatogli dal padre. Ha anche dimenticato la compassione per la madre, l’unica superstite, condannata ad una non vita. Non c’entra nulla la depressione o il male oscuro con il gesto efferato di un uomo che sacrifica il figlio sull’altare di un ego implacabile.

La violenza maschile è stata a lungo legittimata e nello stesso tempo rimossa attraverso una narrazione estetizzata e se vogliamo prevenire la violenza contro le donne e i bambini, dobbiamo cominciare a narrarla con altre parole denunciandone il disvalore. Non è più il caso di provare indulgenza e nascondere il vero movente dei crimini commessi da questi padri, non si deve cadere nell’inganno del “buon padre di famiglia” (come ha dichiarato in un’intervista all’agenzia di stampa Dire, Jakub Golebiewski presidente di Padri in movimento) e tantomeno aderire alla narrazione che gli assassini fanno di se stessi per legittimare i loro crimini.

Cordialmente

@nadiesdaa

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