Nelle coppe europee di calcio il pareggio vale doppio e quindi una vittoria e l’esempio calza perfettamente al tre a tre delle Regionali che si affianca al trionfo del Sì nel referendum sul taglio dei parlamentari. E se c’è una vittoria, ci sono anche dei vincitori e degli sconfitti. Dei primi se ne contano tre, senza alcun dubbio: il premier Giuseppe Conte, il segretario del Pd Nicola Zingaretti, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Anche i perdenti si possono raffigurare in una sconsolata trinità: il sovranista ciarliero Matteo Salvini e gli aspiranti moderati di un centro che non c’è, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Cominciamo, ovviamente, dai vincitori.

Giuseppe Conte. Per settimane, se non mesi, un variopinto fronte di opposizione che va dal fascioleghismo di Salvini&Meloni a Confindustria e alla nuova corazzata centrista dell’ex Fiat, quella di “Stampubblica”, ha tentato di imporre un teorema mediatico dopo l’immensa tragedia del lockdown da pandemia: il governo è fragile e incompetente e deve andare casa. Nel caso dei gattopardi dei poteri forti (è stato Zingaretti a chiamarli così in campagna elettorale) l’obiettivo era – massì a questo punto usiamo pure l’imperfetto – un governo di unità nazionale magari guidato dalla divinità più invocata da molti ambienti: Mario Draghi.

Lasciando da parte l’esito scontatissimo del referendum sul taglio, tuttavia triste vetrina del No della “sinistra per Salvini” incarnata al vertice da Roberto Saviano e dalla Sardine di Mattia Santori, la speranza della spallata era riposta tutta nel risultato delle Regionali. Per settimane, appunto, sulla base dei soliti sondaggi ben indirizzati (eclatante il caso Puglia: ancora ieri gli exit poll vagheggiano un testa a testa tra Emiliano e Fitto e invece da subito l’affermazione del governatore-sceriffo è stata netta) si è favoleggiato di un quattro a due, cinque a uno, addirittura sei a zero per la destra. E’ finita tre a tre con tre vincitori.

Il primo è il premier Giuseppe Conte: la vittoria in chiave nazionale di Eugenio Giani in Toscana e quella citata di Michele Emiliano in Puglia sono certamente un premio alla stabilità all’esecutivo e allo stesso tempo una conferma del suo indice di popolarità e di gradimento. La dimostrazione è nel dibattito divampato negli ultimi giorni all’interno del Movimento 5 Stelle sul voto disgiunto in Toscana e Puglia, soprattutto dopo la volgare risposta di Alessandro Di Battista all’appello di Marco Travaglio sul Fatto. Il velleitarismo identitario a scoppio ritardato di Dibba, sintomo di un’evidente malattia infantile del grillismo, ha avuto una batosta nelle urne.

Ora Conte “vede” meglio l’orizzonte di fine legislatura nel 2023 consapevole che sul suo percorso politico ci sono tre opzioni: federatore super partes di un centrosinistra giallorosso, leader di una nuova forza politica moderata (la fatidica terza gamba dell’alleanza demogrillina), il Quirinale. Decisiva, in ogni caso, sarà la partita della ricostruzione post-Covid con i miliardi del Recovery Fund.

Nicola Zingaretti. Sleepy Nicky è il secondo beneficiario del turno elettoral-referendario. Alla vigilia, vari ministri a microfoni spenti sintetizzavano così il loro terrore per il Venti Settembre delle urne: “Se cade la Toscana crolla tutto”. Non è accaduto e Zingaretti ora può solo capitalizzare il pericolo scampato. Sia in chiave di ambizioni personali: sono fitte le voci di Palazzo su un ingresso al governo da vicepremier o ministro. Sia internamente, per rintuzzare il fuoco amico di varie correnti del Pd e dei governatori neocacicchi intenzionati a giocarsi un ruolo da leader nazionale: in primis l’emiliano romagnolo Stefano Bonaccini, poi persino il campano Vincenzo De Luca.

Ma il segretario del Pd deve fare attenzione a non usare il risultato elettorale per ravvivare la vocazione maggioritaria del suo partito, inseguendo l’obiettivo dell’egemonia sui Cinque Stelle per svuotarli. Il voto di ieri non dimostra questo e magari i flussi elettorali aiuteranno a capire meglio i dati numerici. Insomma, non è detto che gli elettori grillini rinnovino la donazione di sangue come in Toscana e Puglia. Semmai, sul periodo medio-lungo, la prospettiva è una sola: un centrosinistra da modellare a seconda dei sistemi elettorali. Cioè bipolarismo a livello locale (Regioni e Comuni) e proporzionale per il Parlamento.

Luigi Di Maio. Il referendum sul taglio dei parlamentari segna la rinascita dell’ex capo politico dei 5S dopo la rovinosa parabola gialloverde che ha troncato per sempre la sua ambizione di fare il premier. Di Maio ha avuto una metamorfosi tattica simile a quella di Massimo D’Alema quando pronunciò una famosa frase: “Capotavola è dove mi siedo io”. In pratica si è ritagliato un ruolo indiscusso di kingmaker. E lo ha fatto con un crescendo da vecchia volpe dc: si è dimesso da capo politico pur mantenendo il controllo del Movimento; ha scaricato di fatto sul reggente Vito Crimi la disastrosa gestione delle Regionali; si è intestato giustamente la vittoria del Sì referendario; ha incassato il maldestro autogol alla Niccolai di Di Battista.

Ha un solo punto debole, affatto secondario: il suo altalenante rapporto con il premier. Dopo mesi di guerriglia sotterranea, tra i due è scattata una tregua in vista del Venti Settembre. Di solito i tatticismi non danno consensi e popolarità, ma Di Maio sa di aver toppato con l’alleanza gialloverde e da allora mira a conservare solo un suo spazio di potere e decisione politica. Ora dinnanzi a sé ha un obiettivo strategico: continuare la transizione a Cinque Stelle e fare del Movimento una forza di governo all’insegna del riformismo radicale, vecchio ossimoro della sinistra di un tempo. E’ questa la vera partita degli Stati generali.

Gli sconfitti. Fino alle Europee di un anno fa, Matteo Salvini era l’indiscusso Re Mida elettorale della destra. Non è più cosi e la bruciante sconfitta in Toscana della sua prediletta Susanna Ceccardi consolida il processo di logoramento che sta subendo la sua leadership. Non a caso oggi la destra fascioleghista ha due alternative a Salvini. La prima è rappresentata da Giorgia Meloni. Seppur delusa dal mancato exploit di Fitto in Puglia (con le Marche avrebbe conquistato due regioni), la leader di Fratelli d’Italia non fa mistero di puntare a scalzare la Lega da primo partito della coalizione. Anche per questo non si è voluta candidare a sindaco di Roma: ormai il suo obiettivo è Palazzo Chigi. La seconda alternativa è Luca Zaia, il doge veneto che ha raccolto un plebiscito d’altri tempi.

Nonostante le rassicurazioni dello stesso Zaia che continua a ripetere di voler pensare solo alla sua regione, il modello di una Lega pragmatica, moderata e autonomista caldeggiato da Giancarlo Giorgetti potrebbe trovare in Zaia un’efficace suggestione destinata a durare e a mettere in difficoltà Salvini.

Nel triangolo Salvini-Meloni-Zaia c’è infine la lenta dipartita politica di Silvio Berlusconi e di Forza Italia. Eclatante la disfatta in Campania, uno degli ultimi granai di voti azzurri. Ma il fallimento forzista fa pendant con il flop di Italia Viva. Il renzusconismo è un residuo del passato. Altro che grande centro del futuro.

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