Figure forti, emergenti perché capaci di personalità e soprattutto di comunicazione, questa la foto-flash dei governatori più amati, Luca Zaia e Vincenzo De Luca. Entrambi timorosi a gennaio, divenuti onnipresenti e vincenti grazie al Covid, alla conseguente presenza scenica e alla capacità di trasmettere la difesa della loro gente contro il nemico invisibile.

Voglia di stabilità e di non perdere il treno dell’Europa (e questo governo nazionale) per tutte le altre scelte avvenute il 20 e 21 settembre nelle diverse regioni italiane.

Si è demolita una figura politica, in questa elezione, quel Salvini sempre meno affidabile perché ha troppe lacune e macchie visto in controluce e perché non da garanzie al comune sentire di ceti imprenditoriali e di famiglie.

Ne è risultata scalfita però anche la dirigenza del Pd, partito che laddove vince o regge lo fa con la forza di candidati eccellenti e di un popolo che non vuole cedere alla brutalità di una destra-senza-domani, ma dove perde e perde male come in Veneto, non ha saputo presentarsi all’appuntamento come competitor ma solo come vittima sacrificale che raccoglie le briciole per sopravvivere.

Imposizioni romane, mancanza di confronto vero e rinnovamento, dirigenza autoreferenziale e assente di un lavoro di costruzione dell’alternativa con veti incrociati ad escludendum…. queste le motivazioni per la debacle. Merito invece di una base e del lavoro dei consiglieri uscenti invece quel che si è riusciti con fatica a recuperare in termini di consensi.

Prova ne sia che il candidato presidente, ottimo docente ma lontano 1000 miglia dal “sentire” veneto, ha avuto ben un punto in meno della coalizione che lo sosteneva. Il Covid e le dirette quasi quotidiane di Zaia in Veneto (come De Luca in Campania) in assenza di alcun confronto hanno fatto il resto.

Un’elezione questa per la Regione Veneto che quassù, alla periferia dell’impero che lavora sodo e contribuisce non poco a sostenere il Paese, impedirà l’esercizio democratico per i prossimi cinque anni.

Infatti i 5stelle sotto soglia 3% (nonostante un ottimo candidato presidente che quel 3% lo ha superato) pagano il prezzo del reddito di cittadinanza – visto col fumo negli occhi da un popolo operoso – e di un mancato radicamento come struttura politica ma soprattutto impediscono, privi di eletti come sono, di permettere alle opposizioni in Consiglio regionale di ottenere complessivamente con il Pd gli 11 voti minimi per chiedere per esempio i consigli straordinari.

Tagliando con l’accetta ogni forma di confronto vero e di democrazia, Zaia ha costruito con un regolamento a sua immagine, l’assenza propositiva e oppositiva delle minoranze. Un deficit democratico che meriterebbe una valutazione della Corte costituzionale per le gravi implicazioni che ha.

Il governo nazionale prosegue la sua strada uscito indenne da questa prova e vincente per la parte referendaria, dalla sua ha la fiducia di una consistente fetta degli italiani ma è chiamato a scelte radicali per affrontare la sfida delle sfide, quel Next generation Eu che ci permetterà di fare il salto di qualità se ben governato. Con la difficoltà di avere un pezzo importante del Paese, il Veneto, governato in modo autarchico da una giunta regionale e da un Consiglio privi di confronto e schierati all’opposizione del governo nazionale.

La richiesta di un’autonomia è solo l’eterno specchietto per le allodole, il tema da sollevare ora, prima che sia tardi e impedisca un lavoro di squadra dell’intero Paese, è garantire l’esercizio democratico di proposta e controllo venuto a mancare quassù, in Veneto, in questa elezione.

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