“Se dovessi fare un pronostico? Dico che vinceremo 7 a 0. Ci stiamo lavorando”. Qualcosa nel lavoro di Matteo Salvini deve essere andato storto. Esattamente 15 giorni dopo quell’incauta previsione l’atteso trionfo alle regionali non è arrivato. Niente cappotto, niente 7 a 0. Anzi: non è arrivata neanche una vittoria netta. È più che altro un pareggio, ma da come è maturato vale come una sconfitta per l’uomo che nell’agosto di un anno fa faceva cadere il governo chiedendo “pieni poteri“. Il segretario della Lega avrebbe voluto parlare da Firenze, dove aveva annunciato la sua presenza in caso di vittoria di Susanna Ceccardi. Alla fine è stato costretto a rimanere a Milano. In via Bellerio è comparso dopo le 19 per commentare l’unica vittoria certa del suo partito: quella alle suppletive per due collegi del Senato in Sardegna e Veneto. Per il resto ha provato a gettare la palla in tribuna. Ha parlato delle 15 regioni su 20 in mano al centrodestra, ha definito le Marche come un’ex regione rossa, nonostante siano state amministrate dalla Dc dal 1972 al ‘ 95, ha esultato per la Lega sopra il 60% in Veneto, anche se cinquanta di quei punti percentuali sono andati alla lista personale di Luca Zaia. L’alternativa era votare la Lega vera, quella col suo nome nel simbolo: i veneti, leghisti doc, hanno fatto capire in modo chiaro come la pensano.

Il cappotto che è diventato pareggio – Sarà anche per questo se di 7 a 0, cappotti e pronostici Salvini non parla più. “Abbiamo vinto in alcune regioni e perse in altre, sarebbe stupido prendere in giro chi ha problemi reali. Se perdi perdi, i cittadini hanno sempre ragione”, ammetterà poi in serata. Un estremo tentativo di abbozzare, ma è evidente che i piani fossero diversi. Il centrodestra tiene il Veneto e la Liguria e riesce a strappare le Marche al centrosinistra. Ma straperde in Campania e soprattutto in Puglia e Toscana, dove Michele Emiliano ed Eugenio Giani smentiscono i sondaggi della vigilia battendo nettamente Raffaele Fitto e Susanna Ceccardi. Ci sarebbe anche la Val d’Aosta, dove la Lega è data in vantaggio dagli exit poll: il segretario lo fa notare subito dopo aver parlato di suppletive, dimenticando che si tratta di una Regione che ha poco più di centomila abitanti. Senza considerare che la legge elettorale locale è un proporzionale puro: i cittadini non eleggono direttamente il governatore, che potrebbe pure non essere un leghista alla fine dello scrutinio. Più che un 4 a 3, dunque, l’esito di queste regionali è al momento un tre pari che soddisfa maggiormente le forze che sostengono il governo. Il Pd tiene le regioni del Sud e sventa l’avanzata della Lega in Toscana: dopo l’Emilia è un’altra vittoria dall’alto valore simbolico. Il Movimento 5 stelle va molto male alle Regionali (ormai una consuetudine) ma può festeggiare il trionfo dei Sì al referendum sul taglio dei Parlamentari, una riforma-bandiera di entrambi i governi guidati da Giuseppe Conte.

Silenzio sul referendum – Forse è proprio per questo motivo che Salvini, nella sua conferenza stampa, non commenta l’esito della consultazione referendaria. Il leader del Carroccio ha sempre detto di voler votare Sì al taglio ma con scarsissimo slancio. “La Lega vota sì. Ma noi non siamo una caserma e se qualcuno vuole votare in modo diverso lo faccia“, ha ripetuto più volte l’ex ministro dell’Interno. Che da una parte si è appellato alla “coerenza” per giustificare il suo sì, ma dall’altra sapeva che un eventuale e improbabile vittoria del No sarebbe stata utile in chiave anti governativa. Per questo ha lasciato che gli altri leader del Carroccio – come per esempio Giancarlo Giorgetti – si esprimessero pubblicamente contro la riforma: una sorta di campagna parallela che non ha dato i frutti sperati. La strada scelta da Salvini sul taglio, in pratica, era destinata a finire in un vicolo cieco: per questo di referendum ha cercato di parlare il meno possibile. “Prendo atto del fatto che il popolo ritiene che ci siano 300 parlamentari di troppo in Parlamento e che la prima forza politica presente numericamente in Parlamento non esiste più in alcune regioni italiane ma lascio a loro la riflessione”, si è limitato a dire, attaccando i 5 stelle. E siccome qualcuno dei suoi parla già di Parlamento delegittimato, il segretario ha messo le mani avanti: le elezioni anticipate “non le chiedevo ieri e non le chiedo oggi. Prima ci sono meglio è, ma non per le elezioni regionali e il referendum”. Praticamente un’ammissione di come il voto di domenica e lunedì abbia rafforzato la maggioranza di governo.

Toscana, la madre di tutte le sconfitte – La vittoria del Sì, nei piani di Salvini, doveva essere oscurata dall’avanzata del suo partito nelle Regioni. Soprattutto una: la Toscana, storica regione rossa dove aveva chiesto e ottenuto il posto di aspirante governatore. Ha scelto la sua pupilla, Susanna Ceccardi, quintessenza del salvinismo in una regione da sempre a sinistra: doveva essere la madre di tutte le battaglie, capace di valere da sola quanto due o tre vittorie. Una sfida che somigliava molto a quella in Emilia Romagna. Proprio per evitare un finale simile Salvini ha tentato di cambiare approccio: ha condotto una campagna elettorale più moderata, tentando di abbassare i toni, depurando l’immagine della Ceccardi da simboli che ricordassero ai toscani lo spadone di Alberto da Giussano. Grafiche neutre e niente campanelli suonati nei quartieri popolari per accusare – a favor di telecamera – i figli degli inquilini di spaccio di droga: non è bastato. I sondaggi della vigilia sembravano pure promettenti, ma alla fine la Toscana non è mai stata in bilico. Come in Emilia, la sfida su cui Salvini aveva puntato tutto, la madre di tutte le battaglie, è andata persa. E pure la Lega ha fatto un balzo indietro, parecchio sostanzioso. In Toscana alle Europee del 2019 aveva preso il 31%, tallonando il Pd, al 33. Oggi – a spoglio ancora in corso – è data al 21 con i dem oltre il 34.

Il derby in Veneto finisce 3 a 0 per Zaia – Il Carroccio perde consensi anche in Liguria, dove è dato sul 16%, tre punti dietro al Pd e ben 8 rispetto a Cambiamo, la lista del governatore rieletto Giovanni Toti. Nel maggio del 2019, nella stessa regione, Salvini aveva preso il 34%, dieci punti in più rispetto ai dem. Nelle Marche, l’unica regione che la destra scippa al centrosinistra, il governatore è Francesco Acquaroli di Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni prende il 19, con la Lega al 22, ma la lista più votata è rischia di essere di nuovo il Pd che è dato al 24: un anno e mezzo fa il Carroccio era il primo partito col 38%, 15 punti in più rispetto ai dem. Persino il risultato in Veneto rischia di apparire come una beffa pericolosa per il segretario. Nella Regione che da un ventennio è serbatoio di voti per la Lega la riconferma di Luca Zaia a larga maggioranza era scontata. Il voto, però, era atteso soprattutto per il derby interno al Carroccio: la lista del governatore, incoronato da tutti i sondaggi come il leader leghista più popolare del Paese, contro quella ufficiale che porta nel simbolo il nome del segretario. È finita con un 3 a 0 per Zaia nel senso che il governatore da solo ha preso quasi il 50%, con la Lega ufficiale al 15. “In Veneto siamo oltre al 60%. Io non temo e non soffro nessuna competizione interna, che Zaia sia uno dei governatori più amati è un motivo di vanto”, ha provato a esultare Salvini. Che però aveva voluto nella propria lista quasi tutti gli assessori uscenti: una manovra evidentemente tesa a non farsi surclassare da Zaia. Come pure lo stesso evidente obiettivo aveva la lettera inviata da Lorenzo Fontana ai segretari delle oltre 400 sezioni del Carroccio: l’invito del commissario del partito, senza troppo garbo, era di votare la lista ufficiale della Lega Salvini Veneto e non quella Zaia Presidente. Quella missiva non deve essere stata troppo convincente. E ora, dietro a sorrisi e frasi di circostanza, il governatore ne approfitta per togliersi qualche sassolino: “La lista del presidente? Intercetta il consenso che non va al partito“. In via Bellerio a qualcuno saranno fischiate le orecchie.

Al Sud è tornata la Lega Nord Peggio, molto peggio, è andata al Sud. In Campania alle Europee il Carroccio era testa a testa col Pd al 19%: adesso è poco oltre il 5, una percentuale che somiglia ai voti presi da quelle parti prima della svolta nazionalista. Il partito di Salvini, tra l’altro, rischia pure di essere la forza più debole della coalizione, visto che Fdi e Forza Italia sono avanti di alcuni decimali. Nella Regione che ha rieletto Vincenzo De Luca, Salvini viene surclassato pure dalla lista del Movimento 5 stelle (che è data al 13) e perfino da Italia viva di Matteo Renzi (al 6). Stesso copione in Puglia: il Carroccio è dato al 8%, battuto nettamente da Fdi, al 13,3, e testa a testa con Forza Italia, al 9. Anche qui il partito di Salvini viene superato dai 5 stelle e perde una quantità gigantesca di consenso rispetto al 2019, quando fu scelto dal 25% dei pugliesi. Insomma: Fitto e Caldoro saranno stati pure candidati sgraditi al segretario, che però alla prova del voto ha comunque fatto una magra figura. È pure lì dove Salvini ha imposto la sua candidata – Ceccardi in Toscana – alla fine ha perso nettamente. In più – a guardare la media nazionale – il crollo che da diversi mesi viene accreditato dai sondaggi alla Lega sembra essere reale. “Un conto è il voto delle regionali con tante liste e un altro quello delle Europee: non sono comparabili“, è l’estrema giustificazione del segretario, che da tempo minimizza la caduta del suo consenso solo come un effetto dell’emergenza coronavirus. Ma il lockdown è finito da tempo e dalle Regionali non è arrivato alcun cappotto e neanche un 7 a 0. Piuttosto un pareggio che per Salvini ha il sapore di una sconfitta personale: la Lega continua a perdere terreno e l’unico governatore eletto dal Carroccio è il principale indiziato alla sua successione. Dalla richiesta dei “pieni poteri” sono passati solo 13 mesi.

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