Nel gioco dei quattro cantoni del 20 e 21 settembre elettorale non ci sono vincitori; soltanto concorrenti in salvo e altri no.

Di certo si ritrovano estromessi dalla meta agognata i due Matteo: gli ambiziosi giovanotti in carriera che puntavano tutto sulla spregiudicatezza più acrobatica.

Per quanto riguarda il Salvini Matteo, un primo dato che salta agli occhi è il suo mancato sfondamento elettorale al Sud, di cui il dimezzamento del voto leghista in Puglia è la più evidente cartina di tornasole; ossia la mancata condizione irrinunciabile per l’ambizioso progetto di “Lega Nazionale”, quale scopiazzatura italiota dei sovranismi/suprematismi promossi dalle formazioni politiche europee più forcaiole e reazionarie: dal Rassemblement Nationale di Marine Le Pen agli oscurantismi dei post-sovietici del patto di Visegrad. A fronte dell’affermazione scontata di Luca Zaia in Veneto, che ripropone l’alternativa di una Lega bossiana-soft; in cui la devolution si stempera nella più tranquillizzante autonomia, ma sempre circoscritta spazialmente al lato Est della Padania.

Non è andata meglio all’altro Matteo – il Renzi – con la sua strategia incomprensibile (e di certo maldestra negli effetti) di destabilizzare il governo nazionale producendo danni sul territorio; ossia, mettendo a repentaglio l’esito delle liste Pd con presenze puramente di disturbo. Un’operazione dal chiaro significato autolesionistico, che a consuntivo sembrerebbe soltanto “un mistero buffo”. Alla luce dei risibili risultati – attorno al 2% – tanto di Ivan Scalfarotto come di Aristide Fausto Massardo; entrambi guastatori designati a lesionare il centro sinistra in Puglia e l’alleanza centro sinistra più Cinquestelle in Liguria. Cosa sperasse di ottenere il mandante Renzi da questa sorta di slapstick (la gag a base di torte in faccia da cinema muto) continua a non essere chiaro – visto che Italia Viva non dovrebbe essere minimamente interessata a una caduta del governo come anticamera della propria cancellazione – resta soltanto da registrare l’auto-sgambetto del rottamatore-rottamato, rimasto senza cantone.

Mentre nel frattempo si salvano i due sgobboni della politica nazionale Nicola Zingaretti e Giorgia Meloni, chi ora sembra aggirarsi alla ricerca di un punto di equilibrio purchessia è il partito degli opinion maker a mezzo stampa e/o talk show. Quelli che avevano aperto da alcuni mesi il fuoco di fila terroristico contro la bestemmia anti-parlamentare del Sì al referendum. E ora si scoprono in totale dissintonia con l’opinione pubblica di cui presumevano d’essere i facitori.

I filosofi ululanti alla Massimo Cacciari, le Nadie Urbinati politologhe presenzialiste, i sociologi infastiditi e un po’ gné gné tipo Luca Ricolfi, i Roberto Saviano iscritti al martirologio; la compagnia di giro, preposta a indicare la retta via all’inclita e al volgo, che si pregiava di spiegare che la sforbiciata del numero di parlamentari era un mostruoso attacco alla sacralità delle Camere, al venerando principio di rappresentanza, ai fondamenti della democrazia. A cui il voto popolare ha fatto marameo, dimostrando – così – di aver capito benissimo che la difesa da ultima spiaggia di un po’ di posti in Parlamento rispondeva esclusivamente a pulsioni solidali da establishment; da buon vicinato nel quartiere del privilegio.

Una salutare lezione da segnalare all’Annalisa Cuzzocrea, giornalista de La Repubblica, che lunedì, nella solita maratona di Enrico Mentana, se ne usciva con l’ormai insopportabile tirata contro il “populismo”; a suo dire incistato nel Sì referendario. Questo per fare presente alla valorosa esponente del “partito GEDI” (il conglomerato di testate giornalistiche che fa capo alle famiglie Agnelli-Elkan) che il giochino di demonizzare come “populista” l’indignazione per le politiche antipopolari, care ai ceti privilegiati mimetizzati tra le coltri dell’attuale post-democrazia, funziona sempre meno. Tanto da far rischiare in futuro a lorsignori di dover vagare a lungo, alla ricerca di un cantone dove mimetizzarsi.

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