di Mattia Zàccaro Garau

Sei contro trentatré. La competizione, anche ci limitassimo al solo dato numerico, sembrerebbe impari. Ma questa sfida va ben oltre. Da una parte la versione moderna di Davide, sei attivisti portoghesi fra gli otto e i ventuno anni; dall’altra, la versione ripulita del gigante dei filistei, Golia, cioè 33 nazioni dell’area europea, i 27 membri Ue più Svizzera, Turchia, Norvegia, Ucraina, Regno Unito e Russia.

Oggetto del contendere di questa rivisitazione dell’episodio biblico in cui coraggio e volontà sconfiggono violenza e ottusità sono le emissioni inquinanti prodotte dai paesi tirati in causa dai sei giovani lusitani.

Capitalismo estrattivo da una parte, rivendicazione dei diritti dall’altra. Il casus belli, infatti, è proprio l’impossibilità di porre in essere il diritto a vivere all’aria aperta a causa dell’inquinamento. Che è uno dei motivi preponderanti di malessere psicofisico delle generazioni più giovani.

Nell’ultimo decennio, sociologi e specialisti dell’educazione stanno discutendo sulla necessità di istituzionalizzare questo diritto in maniera chiara e distinta, con una postilla alla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza – dove comunque è già riscontrabile in senso lato, nel testo del 1991, agli articoli 3, 6, 24, 27, 36 ma soprattutto 30: “Gli Stati riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica”.

Senza bisogno di scomodare il quasi centenario Edgar Morin e la sua teoria della comunità di destino che lega tra loro tutte le attività umane del pianeta, sia quelle singole sia quelle collettive, possiamo capire facilmente quanto l’azione legale intentata dagli attivisti ambientali portoghesi riguardi appunto il futuro di tutti.

Già in altri procedimenti (in totale, nell’ultimo decennio, i casi sono più di 1500) erano state citate singole aziende o nazioni intere per il loro pesante quanto evitabile impatto climatico. Il caso più importante, in questo senso, è quello olandese: la Corte suprema ha costretto il governo a ridurre del 25% le emissioni di gas serra entro l’anno in corso, avendolo giudicato colpevole dopo una causa intentata nel 2014 da alcuni gruppi ambientalisti.

Ma questa è la prima volta che la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo vede portati alla sbarra la totalità dei paesi che la formano, il numero più alto di sempre. Il collegio alsaziano (che, per inciso, è in una città che da pochi mesi è amministrata da una quarantenne sindaco di Europa Ecologia I Verdi, Jeanne Barseghian) potrà stabilire degli standard insindacabili per i tribunali dei singoli stati. Questo rende il processo che verrà di possibili proporzioni storiche.

E il passaggio dalla cronaca alla storia è possibile solo quando la volontà di agire per rivoluzionare lo stato delle cose è corroborata dall’intenzione, da una scelta morale volta al miglioramento, da un atto di adesione alla nostra costituzione interiore. Nello specifico: solo quando la volontà è diretta in maniera etica. E oggi urge fondare questa etica sull’ecologia.

In questo, i sei portoghesi, hanno saputo offrire la loro intenzione etico-ecologica oltre alla loro volontà pratica. Ma forse si tratta di alzare ancora più il tiro, di essere un po’ più nietzschiani. Di rispolverare quella volontà di potenza che va oltre le conquiste intermedie e che punta dritta a rinnovarsi per se stessa: mai imprigionata a nessun suo traguardo, sempre rivolta ad andare oltre. E di farla migrare sullo sterminato campo ambientale. Che è il solo campo di battaglia in cui le vicende singole scoloriscono fino a diventare totalmente trasparenti, inutili e fuorvianti dinnanzi alla sorte finale della vicenda intera.

Così, la storia dei 6 contro i 33 non deve essere altro che un inizio.

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