Dopo alcuni giorni in cui il numero dei pazienti affetti da Covid 19 ricoverati è lievemente aumentato arriva la notizia che è in aumento la carica virale, ossia il numero delle copie di materiale genetico del nuovo coronavirus presenti in un millilitro di materiale biologico prelevato con il tampone. Un fenomeno che secondo gli esperti potrebbe essere la spia dell’emergere di nuove infezioni. Se tra fine luglio e i primi di agosto la carica virale era inferiore a 10.000, attualmente si rilevano casi di oltre un milione come dichiara all’Ansa il virologo Francesco Broccolo, dell’Università Milano Bicocca e direttore del laboratorio Cerba di Milano. Broccolo ha aggiunto che “circa la metà dei tamponi rilevati nell’ultima settimana supera il milione di copie di materiale genetico del virus, l’Rna, presenti nelle particelle virali infettive in un millilitro di tampone”. Si rilevano inoltre casi nei quali il numero di copie è di un miliardo: “Questo può voler dire – ha osservato il virologo – che il virus si replica bene in alcuni organismi e che questi soggetti potrebbero essere dei super diffusori. Vale a dire che le goccioline di saliva emesse con un colpo di tosse o con uno starnuto potrebbero contenere un numero elevato di particelle virali”. Anche per l’infettivologo Massimo Galli, dell’Ospedale Sacco e dell’Università Statale di Milano, la presenza di una forte carica virale rilevata nei tamponi “è purtroppo un fenomeno che nell’ultimo periodo si è verificato più volte e che è il segnale di molte nuove infezioni”.

A luglio c’era stata una polemica feroce tra scienziati proprio perché in presenza di una minore carica virale si era parlato di un indebolimento del virus. Questo perché a fine giugno i dati virologici mostravano “un costante aumento di casi con bassa o molto bassa carica virale” e “sono in corso studi utili a spiegarne la ragione”. In un documento comune, dieci medici e ricercatori, tra cui Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, e Alberto Zangrillo, direttore del reparto di Rianimazione dell’ospedale S. Raffaele di Milano, avevano segnalato anche come da tempo “i dati clinici mostrino una marcata riduzione dei casi di Covid-19 con sintomi”, e il ricovero in ospedale sia diventato “ormai raro e relativo a pazienti asintomatici o paucisintomatici”. A firmare il documento anche Matteo Bassetti, infettivologo dell’ospedale San Martino di Genova, Arnaldo Caruso, direttore del reparto di Microbiologia degli Spedali civili di Brescia, Massimo Clementi, direttore del laboratorio di microbiologia del S. Raffaele, Luciano Gattinoni, direttore della terapia intensiva del Policlinico di Milano, Donato Greco, consulente dell’Organizzazione mondiale della sanità, Luca Lorini, direttore dell’unita’ di rianimazione dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, Giorgio Palù , docente di Virologia dell’università di Padova e Roberto Rigoli, direttore del reparto di microbiologia dell’ospedale di Treviso.

Ma si tratta di una situazione diversa da quella che tempo fa aveva generato un dibattito sulla possibilità che alla fine del fine lockdown il virus avesse perso mordente e che, secondo Galli, “era probabilmente nata dalla constatazione che persone portatrici da tempo del l’infezione, se esaminate, appunto, dopo una ‘lunga convivenza’ con il virus non avessero una grande replicazione virale. Questo, però, non accadeva perché il virus si fosse indebolito: tutto dipendeva da chi si andava a valutare. Stabilire da quanto tempo una persona è infettata è spesso difficile, specie se i sintomi della malattia sono modesti o mancano del tutto. È importante – ha rilevato Galli parlando con l’Ansa- che si dibattano temi come questi nella comunità scientifica, ma può accadere di dover ripensare a conclusioni tratte senza che tutti i termini del problema fossero ben definiti”.

In quel periodo si si chiedeva ancora quale fosse la reale capacità delle persone asintomatiche o paucisintomatiche di trasmettere l’infezione. Ma in un recente studio pubblicato su Nature si è evidenziato che gli asintomatici hanno una carica virale paragonabile a quella dei sintomatici e che sono in grado di trasmettere il virus. Uno studio recente ha dimostrato che vi è una prova ulteriore del fatto che anche gli individui asintomatici potrebbero trasmettere il coronavirus, contribuendo – ignari – alla diffusione dell’epidemia: infatti, uno studio condotto in Corea del Sud su un gruppo cospicuo di individui seguiti a lungo nel tempo in un centro di assistenza a Cheonan, è emerso che i veri asintomatici, che ammonterebbero a circa il 30% di tutte le persone positive al tampone per il Sars Cov 2, presentano una carica virale (concentrazione di virus in naso e gola) del tutto corrispondente a quella dei positivi con sintomi, e conservano questa carica virale a lungo, quindi sono potenzialmente contagiosi. Lo studio, pubblicato sulla rivista Jama Internal Medicine, è stato condotto presso il Policlinico Universitario Soonchunhyang a Seul e Soonchunhyang University College of Medicine ed ha coinvolto in tutto 303 individui che sono rimasti isolati e monitorati nel centro di assistenza dopo un focolaio che era scoppiato in una congrega religiosa. Lo studio è stato reso possibile da fatto che in Corea del Sud sin dall’inizio di marzo è stata svolta una campagna massiccia di test per scovare tutti i casi. Ebbene, è emerso che dei 303 positivi al tampone di cui 110 inizialmente senza sintomi, 89 sono rimasti sempre completamente asintomatici, fino a che il tampone non è tornato negativo; confrontandoli con i pazienti che hanno sviluppato sintomi, è emerso che gli asintomatici presentavano la stessa concentrazione di virus in naso e gola di un positivo con sintomi. Inoltre la carica virale rimane alta a lungo nell’asintomatico, per un numero di giorni (mediamente 17 giorni) equiparabile a quello di un paziente (19 giorni e mezzo).

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