Il corpo prono e nudo, con la faccia che sprofonda nel mare. Il torace incastrato nei tubolari del gommone semi-affondato. Le gambe divaricate a pelo d’acqua e, in prossimità dei glutei, i segni di ferite profonde cotte dal sole e dal caldo cocente; ustioni quasi sicuramente causate dalla miscela di carburante e acqua salata.

Così è apparso ai nostri occhi, anzi agli occhi dei piloti di Seabird, durante un volo di ricognizione dell’aereo di Sea-Watch, il corpo senza vita di un uomo di cui non sappiamo nulla.

Quella mattina di fine giugno, dopo aver informato le autorità italiane, maltesi e libiche nel tentativo di sollecitarne l’identificazione e il recupero, l’equipaggio del piccolo velivolo ha scattato questa foto spaventosa che racconta drammaticamente, anche a chi finge di non vedere, il volto macabro del Mediterraneo oggi, con un cadavere abbandonato in mare, sui resti di un gommone a 40 miglia dalla costa libica.

Questo tratto di mare, svuotato dalle navi civili di soccorso contro cui la politica si è scagliata con ferocia, è negli ultimi anni teatro di violazioni sistematiche dei diritti umani e testimone di una profonda e disumana inadeguatezza della nostra Europa, in tema di migrazioni e accoglienza.

E’ quello che anche le cronache politiche raccontano: ancora oggi, in maniera pavida sulla scia del precedente esecutivo e nella miope convinzione di replicare quella curva momentanea di consensi, non si smette di inseguire la tanto discussa criminalizzazione di chi in mare salva vite umane. E che, sostituendosi ad un obbligo cui lo Stato dovrebbe adempiere, lo fa a proprie spese grazie al sostegno di tanti cittadini privati. Perché, semplicemente, va fatto.

Perciò questa immagine ci scuote forte. La sua crudezza fa male perché restituisce un disagio che ha a che fare con l’abbandono, con la scelta di non prendersi cura dell’altro. Con la noncuranza verso un corpo deturpato, verso un uomo in pericolo, verso donne, uomini e bambini in fuga dai lager libici che, in mano ai trafficanti, hanno perso il controllo delle loro vite. Ha a che fare con la rassegnazione rispetto al fatto che al largo dei nostri ombrelloni si muore. Continuamente, e sotto i nostri occhi.

Di questa storia non sappiamo nemmeno dire se le persone che a bordo con lui stavano cercando di fuggire dalla Libia siano morte in un naufragio o siano state vittime di un respingimento per mano della cosiddetta guardia costiera libica.

Dopo quella mattina di giugno, l’aereo di Sea-Watch è tornato a volare per monitorare e segnalare imbarcazioni in pericolo. Nonostante le numerose richieste inoltrate alle autorità competenti, ha di nuovo, per altre tre volte, avvistato il corpo alla deriva in balia delle correnti. Abbiamo trasformato il Mediterraneo in un cimitero a cielo aperto, con corpi che non hanno volto, non hanno nome ma che sono lapidi sulle nostre coscienze.

Siamo di fronte ad un lento e pericoloso processo di desensibilizzazione e anestetizzazione collettiva rispetto ai drammi che non ci coinvolgono personalmente. Quanto siamo responsabili di quello che sta accadendo? Occorre fermare questa strage silenziosa. C’è in gioco la nostra civiltà, e quella di un’Europa che non può più permettersi di stare a guardare. È ora il momento di tornare a prendersi cura dell’altro, ad aiutare e soccorrere chi ha bisogno.

E’ innanzitutto da questo corpo, ad oggi ancora vergognosamente abbandonato in mare, dal suo recupero, dall’identificazione e dalla restituzione alla sua famiglia, che può e deve passare la rinascita di una nuova Europa.

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