Musica

Linus a FqMagazine: “I concerti all’aperto con mille persone distanziate sono una richiesta ridicola, così si uccide il business. La radio? Non la lascio fino a quando mi diverto ”

Il direttore di Radio Deejay pubblica il 19 maggio la sua autobiografia “Fino a quando”, un racconto intimo dall'infanzia al professionista di oggi con 44 anni di carriera in radio alle spalle. Tanti ricordi intimi legati alla famiglia, ma anche la passione per uno dei mezzi di comunicazione più amati dagli italiani. Linus a FqMagazine racconta la sua vita e dice la sua sul mondo dello spettacolo bloccato dalla pandemia

di Andrea Conti

Linus è stato nominato lo scorso 23 aprile direttore editoriale del polo radiofonico del Gruppo Gedi (Radio Deejay, m2o e Radio Capital). E il 19 maggio pubblica “Fino a quando”, dove racconta molto di se stesso. Abbiamo incontrato Pasquale Di Molfetta, questo il suo vero nome, per capire come la passione per la radio sia ancora intatta dopo 44 anni di attività. Sin da giovanissimo si è rimboccato le maniche, lavorando in fabbrica e conciliando la scuola serale, il lavoro e la radio. A 23 anni ha fatto il rappresentante. Poi, in qualche modo, la radio da passione diventa mestiere con un carico di responsabilità pesante. Il libro “Fino a quando” inizia con Linus che decide, sotto Natale, di ritirarsi per scoprire “cosa c’è dietro la porta”. Poi ci ripensa. Il confine tra realtà e fantasia è sottile. A FqMagazine il padrone di casa di “Deejay Chiama Italia” si racconta senza filtri, dalla sua vita privata al futuro della radio, dei concerti e della Deejay Ten.

Non sapremo mai se la decisione di ritirarti, che racconti nel libro sia vera. Cosa ti piace della radio dopo più di 40 anni?
Che mi diverto. Ad esempio, settimana scorsa mi sono divertito un sacco con Nicola Savino. C’è ancora tanta energia, dopo tanti anni.

Quando decidi di ritirarti lo spieghi con un “adesso ho voglia di vedere cosa c’è dietro quella porta”. Cosa c’è dietro quella porta?
Ci sono tante altre cose. Siamo abituati a pensare che quello che facciamo, quando va bene, sia l’unica cosa che ci interessa davvero. Un po’ come quando finisce una storia d’amore, tutte quelle pagine che hai vissuto si chiudono e per istinto di protezione, pensiamo che non ci sia più nulla intorno a noi. Invece siamo fatti per ripartire e in un momento di difficoltà, riscopriamo sempre cose nuove. Nonostante abbia un carattere così puntiglioso e testardo, non faccio mai progetti a lungo termine perché siano delusi, cerco invece di cogliere ogni giorno ciò che mi viene offerto.

In “Fino a quando” ti sei messo a nudo: c’è tutto la tua famiglia, le due compagne, la famiglia, le sconfitte, risalite. Da dove nasce l’esigenza di raccontarsi?
Questo libro è un po’ una reazione a tutto quello che è stato fatto tutti i giorni nel mio programma’Deejay Chiama Italia’, dove racconto tanto di me è, ma è un me ‘filtrato’. Alla radio si è un po’ costretti a usare il tono leggero e a dare una versione di te sempre positiva ed allegra. L’idea è nata in un momento difficile che ho vissuto lo scorso anno per motivi di salute, un problema alla schiena importante. È stato un periodo deprimente e ho pure accusato anche la fatica del mio lavoro. Un po’ perché lo faccio da tanti anni (44) e poi perché ho tanta responsabilità nei confronti delle tante persone che lavorano con me.

“Ogni successo si è portato via un pizzico della mia anima”. Ti succede davvero?
Succede ogni volta che provo a fare qualcosa che poi si rivela particolarmente riuscito. Un grande evento, una festa o anche la Deejay Ten. Vedo e vivo intensamente la soddisfazione di chi sta intorno al progetto. Quando finisce tutto ho le batterie di colpo scariche. Sarà l’energia nervosa o lo stress accumulato, ma sento che un pezzetto di me se ne va. Fa piacere quando un progetto va bene, ma mi chiedo sempre se la gente sa quanta lavoro e fatica c’è dietro. Una cosa ben fatta, porta con sé tantissimo lavoro.

Ti sei sempre rimboccato le maniche. A 20 anni lavoravi in fabbrica cercando di conciliare lavoro, scuola serale e radio. Hai fatto anche il rappresentante a 23 anni. Come sono i giovani di oggi?
Per colpa anche nostra, un po’ meno capaci di affrontare le difficoltà e con poco senso pratico. I nostri genitori erano molto poco presenti, mai un aiuto per i compiti e il rendimento scolastico, di conseguenza, importava poco. Quello che facevo era quello che dovevo fare. Così ho imparato presto ad autogestirmi. Noi genitori, oggi, abbiamo un atteggiamento protettivo nei confronti dei nostri figli e cerchiamo di spianargli la strada. Oggi siamo più vicini a loro. Io con i miei figli, Filippo e Michele, faccio tante cose insieme, c’è una bella complicità. Poi però, alla fine, sono come dei cuccioli che fanno fatica a diventare leoni.

“Non esiste la felicità assoluta, anzi cercarla è spesso il modo per sprecare quello che di buono hai costruito”. Una affermazione forte…
Però vera. Siamo stati allenati, sin da piccoli con l’illusione che siamo progettati per avere una vita felice e meravigliosa, ma non è mai così. La vita è come una collanina con tante perle che puoi infilare una dopo l’altra, puoi metterci palline di tanti colori diversi, così impari a riconoscere i momenti di felicità e i momenti più difficili. È un esercizio.

C’è un ricordo molto intimo legato a tua madre: “La vibrazione del suo petto, come una cassa armonica, mentre parla tenendomi sulle ginocchia”. Che rapporto avevi con lei?
Ho tenuto molte emozioni dentro di me e me ne sono reso conto, diventando grande. Con i miei ho avuto rapporti conflittuali e non nego di averli messi in difficoltà. Mio fratello Albertino è più simile a papà, anche fisicamente, per la leggerezza e l’allegria. Io, invece, ho un carattere tendente all’ombroso, ho un umorismo tagliente, sono sarcastico, faccio battute. Ho preso molto da mia madre, dal suo cinismo e dal suo sarcasmo, tipicamente pugliesi.

Passando all’attualità, sei stato tra i primi, ancora prima che si fermasse tutto, a mettere in sicurezza la radio. Cosa ti ha spinto a mandare tutti a casa?
Fa un po’ parte del mio lavoro, quello del dj, capire l’umore di chi hai intorno. Il dj capisce se la canzone funziona o no, guardando gli sguardi della gente che sta in pista. Ho usato questa metafora musicale per dire che, nel momento che è saltato fuori il paziente zero, il 21 febbraio, il giorno seguente era un sabato e ho subito cancellato la nostra festa di Carnevale, prevista il 25 febbraio. I miei collaboratori mi hanno dato del precipitoso, ma io avevo capito che la gente aveva già paura. Non si può fare una festa con la gente che ha paura. Inoltre è stata una scelta di buonsenso per privilegiare la salute di tutti. Lo stesso ho fatto con chi lavora in radio, ho visto che molti avrebbero preferito lavorare da casa o stare al sicuro. Sono contento di averlo fatto subito.

Il mondo dello spettacolo riprende dal 15 giugno con 200 persone massimo a teatro e al cinema, 1000 invece per eventi all’aperto. Che ne pensi?
Direi che 200 persone in un cinema o in un teatro può avere senso. È importante che certe cose rimangano accese e vive. Diverso è il discorso di un concerto o di un evento all’aperto con mille persone, con la richiesta di distanziamento fisico di un metro l’uno dall’altro. Una richiesta ridicola perché mettere tutti distanziati in un concerto è come uccidere lo show. E poi come fai a verificare che tutti quanti rispettino la distanza di sicurezza, durante lo svolgimento dello spettacolo. Li metti su una seggiola? Fai prigionieri? Per contenere, infine, mille persone devi avere almeno una superficie che ne contenga diecimila, se consideriamo il distanziamento. I costi sono insostenibili, così uccidi il business.

Che ne sarà della Deejay Ten?
Ogni tanto, quando ne discutiamo, c’è qualcuno che si alza e dice ‘se le cose vanno bene a settembre, facciamola!’. La verità è che non possiamo prenderci la responsabilità di consentire un assembramento di queste dimensioni. A questo si aggiunga che le cose vanno preparate con largo anticipo: dagli accordi pubblicitari alla preparazione del materiale. Di solito ci lavoriamo cinque-sei mesi prima. Insomma la Deejay Ten non ci sarà modo di farla per il 2020. Questo è un anno che è andato così, sarà più bello farla l’anno prossimo. A volte bisogna anche essere sereni nel prendere certe decisioni. A tante persone le cose vanno male, anche a noi, è fisiologico. Ma lamentarsi, ora come ora, sarebbe brutto nei confronti di chi ha serie difficoltà causate dalla pandemia.

Tutte le radio si sono unite, lanciando ‘I Love My Radio’ per eleggere la canzone più bella degli ultimi 45 anni. Come siete riusciti a dialogare?
Sono rimasto sorpreso e felice. Sono una persona che tende ad andare d’accordo con tutti e ci rimango quando non ci riesco. Ci sono sempre tanti modi per essere rispettosi l’uno dall’altro. La verità è che c’è sempre stato un atteggiamento un po’ infantile e litigioso tra le radio, questo anche perché proveniamo tutti dalle radio degli anni 70, dove c’era un po’ questa competizione. Ho passato due ore al giorno per tre settimane con i colleghi ed è stato quasi surreale. Ammetto che i primi due giorni è stato un po’ difficile, perché con molti di loro non avevo nessuna confidenza. Poi ho instaurato un rapporto molto buono proprio con quelli che pensavo avessero un carattere più ostico. Un esempio lampante di come molto spesso ragioniamo in base a pregiudizi e di pancia.

Ci sarà un tormentone estivo anche quest’anno?
Manca qualcosa che sia divertente, non ci sono quelle cose da ragazzini, forse ci sono brani che sono stati tenuti nel cassetto. Un po’ come la pubblicità che è sparita dalla tv perché la maggior parte degli investitori non se l’è sentita di dire alle persone, ad esempio, ‘comprate le macchine!’. Insomma tra i brani usciti ad oggi, non c’è nulla di clamoroso. Se a giugno dovesse arrivare il vero tormentone, talmente è la voglia di svago che l’accoglieremmo a braccia aperte.

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