“Non ho mai visto una crisi sanitaria come questa. Nelle ultime due settimane abbiamo assistito a un incremento del 100 per cento dei casi di polmoniti definite atipiche e il governo continua a promuovere le attività sociali, il turismo e le feste”. Jose Antonio Vasquéz, 56 anni, è un medico da oltre 30 anni e lavora nella capitale del Nicaragua, Managua.

È l’unico paese del Centro America dove non sono state prese misure per frenare il contagio da coronavirus. Niente quarantena, attività commerciali e frontiere sono ancora aperte, mentre il picco è atteso per giugno. Il governo promuove il turismo interno e ha organizzato una manifestazione con migliaia di persone, la marcia ‘L’amore al tempo del coronavirus’ e dopo 35 giorni di assenza, il presidente Daniel Ortega è riapparso con un messaggio televisivo per minimizzare l’impatto della pandemia.

Ad oggi, secondo le statistiche ci sono quindici casi di Covid-19 e cinque morti. “Le cifre ufficiali non raccontano la realtà che vediamo ogni giorno. Non si fanno tamponi ai malati. Nelle ultime due settimane, i pazienti che sono stati trattati come casi di coronavirus e poi sono morti vengono registrati con altre cause di decesso, rimanendo fuori dalle statistiche”, racconta Vasquéz.

L’80 per cento dei 160 respiratori presenti negli ospedali è in uso. Gli ultimi dati del Ministero della Salute parlavano di 24.107 casi di polmoniti e di 70 morti. Numeri che non sono stati più diffusi dopo il primo caso ufficiale di contagio registrato il 18 di marzo. Una situazione denunciata da oltre 236 medici del Nicaragua, che hanno inviato una lettera al governo per richiedere il rispetto delle misure previste dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ed è proprio il personale medico in prima linea ad essere vittima di intimidazioni. “Siamo medici e ci chiamano golpisti. Ci minacciano perché facciamo il nostro lavoro, salvare vite perché la linea del governo è raccontare che siamo un paese senza contagi”, continua Vasquéz. “Alcuni medici sono stati licenziati, altri si sono dimessi per mancanza di dispositivi di protezione. Quelli che sono in servizio devono comprare a loro spese le visiere e il gel disinfettante e ogni giorno aumenta il numero degli operatori che si ammalano”.

Il sistema sanitario era già stato fiaccato da oltre 430 licenziamenti per aver curato i manifestanti durante il conflitto civile, iniziato con le proteste studentesche nell’aprile 2018. Si trattava di feriti con arma da fuoco, con bastoni, molti dei quali sono morti. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, sono morte 328 vittime e oltre 100mila persone sono state sfollate, soprattutto in Costa Rica e Messico, per sfuggire alla repressione dei paramilitari.

Durante il conflitto civile è nata la Unidad Medica Nicaraguense (UMN), un’organizzazione che lavora per garantire attenzione medica a ogni persona, presieduta da Vasquéz, anche lui sopravvissuto alla violenza del regime. Nel 2018 è stato arrestato dai paramilitari e torturato nella carcere El Chipote di Managua per aver curato i feriti.

Tra loro c’è Francisco Martinez, 21 anni, studente di medicina della città universitaria di León, uno dei leader del movimento studentesco. “Molti compagni e compagne sono stati arrestati, torturati e violentati – racconta Martinez -. Nonostante la violenza crediamo che la cittadinanza sia diventata molto più critica riguardo al regime di Ortega. Durante la pandemia sta crescendo il malcontento per la gestione sanitaria. Dobbiamo smettere di dare carta bianca ai politici, passando da un regime all’altro”.

Nel frattempo, però, c’è da gestire l’emergenza sanitaria. “Non abbiamo il personale e gli strumenti adatti per quando arriverà il peggio – conclude Vasquéz -. Dopo la crisi politica repressa nel sangue, adesso il malessere sta crescendo. I cittadini sentono che è a rischio la loro vita”.

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