“Non possiamo imporre a tutta Italia di non andare il lavoro, ma possiamo incentivare il ricorso allo smart working”. Per il ministro della Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone, è da escludere la chiusura totale degli uffici pubblici per contrastare la diffusione del coronavirus, ma bisogna invece puntare su forme di lavoro agile. Si tratta, però, di una missione impossibile. All’interno della Pubblica amministrazione non si parla una sola lingua, spesso e volentieri non c’è condivisione delle informazioni e persino all’interno di una stessa amministrazione si attuano procedure diverse. Per non trascurare il fatto che, in nome dell’autonomia, le Regioni e, più in generale, gli enti locali si sono organizzati come meglio credevano. In totale ci sono circa 30mila amministrazioni (di cui 20mila scuole) che operano secondo regole proprie. In barba alla legge sulla semplificazione 241 del 1990.

È questo lo scenario della Pubblica amministrazione digitale a più di trent’anni dall’entrata in vigore della legge sul telelavoro, lavoro agile o smart-working, regolamentato dal Decreto del presidente della Repubblica numero 79 del 1999. A completare il quadro c’è il poi il fatto che le infrastrutture non sono pronte: l’accesso alla rete a banda larga non è ancora abbastanza diffuso nel Paese e il cloud nazionale, cioè l’archivio digitale dello Stato, è solo una chimera. Siamo insomma all’anno zero del digitale nella pubblica amministrazione come testimoniano le difficoltà nella didattica web che, con grande sforzo e creatività, i docenti stanno portando avanti sulle più svariate piattaforme senza un piano unico per gestire l’emergenza coronavirus.

Ma perché in Italia la Pubblica Amministrazione digitale non è decollata come avrebbe dovuto? Perché ancora oggi ci sono documenti che non nascono digitali, ma, soprattutto nei tribunali, sono fotocopiati e poi scannerizzati. Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto a Donato Limone, professore di informatica giuridica e direttore della Scuola Nazionale di Amministrazione Digitale (SNAD) dell’Università di Roma. Per l’esperto, “il problema è che i diversi rami dello Stato operano con procedure vecchie di 40 anni nonostante la legge preveda espressamente l’obbligo di semplificazione e il passaggio dall’analogico al digitale. Abbiamo oggi ancora un sistema misto che può andar bene in una fase breve di transizione, ma che, a distanza di decenni dall’approvazione delle norme, non è più giustificabile”.

Un esempio può forse rendere più agevole la comprensione del problema: se, ad esempio, in tribunale un processo non è “nativo digitale”, cioè interamente con documentazione digitale, ma magari ha ancora faldoni cartacei, il giudice non può permettersi lo smart working. “Il nostro modello amministrativo non si è adeguato all’avvento delle nuove tecnologie – prosegue l’esperto -. Continuiamo a lavorare con procedure piene di formalismi giuridici che rappresentano oneri diretti e indiretti per i singoli, per le imprese e per la collettività”.

Il costo della mancata digitalizzazione è enorme e rischia di lievitare ulteriormente con l’emergenza Coronavirus. Secondo le stime di Limone, pubblicate nella raccolta Il governo della trasformazione digitale (editore Key4biz, luglio 2018), le piccole e medie imprese pagano 22 miliardi l’anno per i costi della burocrazia. Si tratta di una tassa nascosta, per ogni azienda, di circa 2 euro l’ora. L’Università di Trento, in un’indagine condotta per conto di Confcommercio nel 2018, ha sostenuto che la posta in gioco sarebbe anche più alta: sulle piccole e medie imprese graverebbero 33 miliardi l’anno di “oneri da burocrazia”, pari a 8mila euro ad impresa con un incidenza del 39% sul profitto. Senza contare il costo per il Servizio sanitario nazionale, oggi estremamente sotto pressione, che con la digitalizzazione potrebbe sviluppare innovativi e funzionali sistemi di medicina a distanza, come riferisce Limone.

Eppure nonostante gli indubbi vantaggi della digitalizzazione della Pubblica amministrazione, le “istruzioni per l’uso” fornite dal legislatore già negli anni ’90 sono finora rimaste lettera morta. Non resta che chiedersi come recuperare velocemente il tempo perduto. “Bisogna dare applicazione al Codice dell’amministrazione digitale. Non servono altre leggi. Bisogna usare le norme esistenti e semplificare”, spiega l’esperto che sottolinea come il cloud (la nuvola-archivio dei documenti digitali, ndr) rappresenti un problema successivo rispetto alle incongruenze esistenti all’interno della pubblica amministrazione. “Il cloud è il luogo dove scambiare i dati – precisa – ma se i dati non sono digitali e non si possono scambiare, il cloud stesso ha una rilevanza relativa. Se la pubblica amministrazione non diventa digitale, il telelavoro non ci sarà mai”.

Ma perché tante resistenze ad una trasformazione digitale capace anche di combattere la corruzione? “Ad oggi l’Italia resta il Paese dai mille campanili, dove ognuno ha il suo orticello. Di qui tanta ostilità ad un cambiamento che inevitabilmente porterebbe una totale tracciabilità e trasparenza”, conclude l’esperto che auspica, nella drammatica esperienza dell’emergenza coronavirus, il governo riesca a sbloccare una situazione di stallo che dura ormai da troppo tempo.

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