Nel novembre del 2019 i responsabili politici dell’Unione Europea avevano concordato di spendere 300 milioni di euro in più rispetto a quanto inizialmente previsto per l’ultimo anno di Horizon 2020, il programma quadro con cui l’Europa ha finanziato la ricerca negli ultimi sette anni. L’ultimo canto del cigno, prima che la dura realtà della finanza post-Brexit iniziasse a fare i suoi effetti. E il “cigno nero” del coronavirus entrasse di prepotenza nella nostra vita quotidiana.

L’Unione Europea prevede due tipi di bilancio: un piano settennale a lungo termine e budget annuali specifici. Il primo è, nel gergo dell’Unione, un “quadro finanziario pluriennale” che inserisce cifre indicative dei programmi principali, stabiliti secondo una prospettiva di medio e lungo termine. I budget annuali distribuiscono poi le risorse anno per anno, tenendo conto anche di quanto emerge in corso d’opera. E la maggior parte dei soldi viene normalmente spesa nell’ultimo anno di ciascun programma, a meno che qualcosa non sia andato storto.

In ballo, ora, c’è il bilancio per il nuovo programma di ricerca e sviluppo, Horizon Europe, previsto per il prossimo settennato, dal 2021 al 2027. La Commissione aveva proposto 94 miliardi di euro ma il Parlamento ne voleva 120. Un miraggio, viste le pressioni combinate della post-Brexit e di una dozzina di paesi proteggono il bilancio di coesione dell’unione, che finanzia lo sviluppo nelle regioni meno ricche.

Il miraggio si sta trasformando in un incubo, in un silenzio assordante da parte degli studiosi. È una vera e propria omissione che, nel corso dei colloqui cruciali in corso, consente ai politici di abbandonare a cuor leggero gli impegni a sostegno dei finanziamenti di Horizon Europe. Mentre gli agricoltori sono andati ripetutamente a Bruxelles per protestare, la comunità della ricerca è stata troppo silenziosa. Tutti zitti, curvi a pedalare gli studiosi; tutti in riga nel soffiare sommessamente il proprio sostegno al palazzo, i burocrati universitari.

Mentre la crisi sanitaria si avvinghia alla crisi economica con effetti di retroazione del tutto imprevedibili, la ricerca non è certo il problema più urgente, anche se, forse, il più importante per il futuro del continente. C’è anche chi, come il presidente della Commissione per l’Industria del Parlamento europeo Cristian-Silviu Bușoi, paventa il “rischio teorico” che un bilancio ritardato avrebbe un “impatto negativo” sull’avvio dei programmi di ricerca a partire dal gennaio 2021.

I ricercatori europei hanno perso il più valido paladino, il Regno Unito. Era il secondo maggiore beneficiario dei fondi di Horizon 2020 e avrebbe certo spinto per aumentare il budget verso il nuovo orizzonte. A debole sostegno della ricerca rimangono i soli paesi cosiddetti “frugals” – Paesi Bassi, Danimarca, Austria, Svezia, capaci di attrarre ricche quote di torta in virtù di sistemi educativi e scientifici molto forti – mentre i maggiori contribuenti, Germania e Francia, devono mediare tra spinte interne contrastanti e un ampio ventaglio di priorità.

I francesi combattono a difesa dei sussidi agricoli, mentre gli stati dell’est europeo, come l’Ungheria e la Polonia, danno la priorità al finanziamento ridistributivo, i fondi di “coesione” volti a ridurre il divario di prosperità est-ovest nel continente. E in questa direzione, hanno il sostegno di paesi mediterranei come Spagna, Portogallo e Grecia.

Nell’ultimo numero di THE World University Rankings, David Mattews riporta le parole amare di Deketelaere, segretario generale della League of European Research Universities: “Nessuno difende la ricerca e l’educazione. Nessuno sta dando loro una priorità a livello di Stati membri”. E, secondo Enora Pruvot, vicedirettore per la finanza e la governance dell’Associazione Universitaria Europea, arranchiamo già con un ritardo record, con il pericolo di desertificare la ricerca europea.

In modo inconsapevole, ci stiamo avvicinando alla Slow University? È la prospettiva un po’ utopica evocata in un libretto pubblicato l’anno scorso, Morte e Resurrezione delle Università. La rinascita dell’università moderna, oggi fondata sul primato del mercato e destinata a esaurirsi in virtù dei meccanismi del mercato stesso, ha bisogno di una scossa. Messi a dieta da Horizon Europe, gli studiosi che vogliono davvero resistere e ribaltare il dogma utilitaristico della scienza e dell’università degli ultimi 30 anni, potranno fare a meno del facile reclutamento di assistenti e ricercatori precari, studiare di più in proprio, ingegnarsi. E, se avanti con gli anni, potranno riscoprire il piacere della ricerca “faidate”.

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