“La verità è che scoraggerò fino all’ultimo le mie figlie a fare le ricercatrici. A meno che decidano di andarsene all’estero”. Lo ripete più volte e con rammarico Marilena Ciciarello, la scienziata italiana di 43 anni vincitrice nel 2019 e per la seconda volta, la prima nel 2015, del premio Ash Giuseppe Bigi Memorial Award con il suo studio sui meccanismi che alimentano la leucemia. L’ha ritirato durante il 61esimo Congresso dell’Ash-American Society of Hematology che si è tenuto dal 7 al 10 dicembre a Orlando, in Florida. Un doppio riconoscimento che vale oro negli Stati Uniti, mentre in Italia passa quasi inosservato. Pluripremiata all’estero, ricercatrice precaria all’Istituto di ematologia Seragnoli dell’azienda ospedaliero universitaria Sant’Orsola-Malpighi di Bologna, Marilena Ciciarello grida all’ingiustizia: “All’estero il lavoro da ricercatore è tra i lavori più apprezzati, tra quelli più prestigiosi. In Italia invece viene considerato quasi un hobby, non una vera professione. Per intenderci un mio responsabile durate una delle prime esperienze in laboratorio ha avuto il coraggio, quando mi sono presentata nel suo studio per chiedergli uno stipendio come da lui promesso, di dirmi che non posso pretendere tanto perché ‘si sa il ricercatore deve essere per forza un figlio di papà'”.

Oggi Marilena, mamma di due figlie, porta avanti le sue ricerche grazie a un contratto con l’Ail, associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma, attraverso il programma “Adotta un ricercatore“, in scadenza a maggio ma che, come le hanno promesso, verrà rinnovato. La “mamma adottiva” di Marilena “è una signora francese che da molti anni vive a Bologna e si chiama Marie Paule Vedrine. “Ogni tanto ci sentiamo. Lei è venuta qui, le ho presentato il mio progetto, la tengo informata su come procede e la ringrazio nelle mie pubblicazioni”. Marilena ogni anno deve sperare in un rinnovo: è stata per sei anni una dei tanti ricercatori destinatari dell’assegno di ricerca come previsto dalla legge Gelmini del 2010, ma che una volta passati i 6 anni ricadono nella precarietà. “Se per quelli come noi non si crea una soluzione ad hoc saremo fuori per sempre”.

Ma c’è di più: “La cosa peggiore è che con il mio contratto non è possibile accedere ai fondi di ricerca messi a disposizione da agenzie private o pubbliche perché non sei istituzionalmente nessuno, né per l’ospedale né per l’università”. La ricercatrice di Bologna, con origini calabresi, si sente abbandonata: “Da anni la ricerca non rientra nei piani dei governi. Per questo sono stata tentata di mollare tutto”. Eppure il suo è un curriculum di tutto rispetto. Anzi, di più: ha studiato all’università Sapienza di Roma dove si è laureata in Biologia, per poi fare un dottorato in Genetica e Biologia molecolare e una specializzazione in Genetica applicata. Dopo un periodo nella capitale, in un laboratorio del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) con una borsa della Fondazione dell’Airc-Associazione italiana per la ricerca contro il cancro (Firc), nel 2009 si trasferisce all’Istituto di ematologia Seragnoli di Bologna dove lavora nel Laboratorio di terapia cellulare diretto da Antonio Curti, unità operativa di Ematologia guidata da Michele Cavo. Prima con un contratto di 3 anni e poi con un assegno di ricerca ottenuto con la riforma Gelmini. E infine l’accordo con l’Ail.

Perché quindi non lasciare l’Italia e scappare all’estero? “Mi considero una ricercatrice che sa fare il suo lavoro e per questo vorrei continuarlo a farlo in Italia. Qui ho costruito la mia famiglia. Ho due figlie e un marito, trasferire tutti all’estero sarebbe un problema”. E poi conclude: “La notizia del nuovo riconoscimento all’Ash mi ha dato un po’ di carica ma ammetto di avere pensato alla possibilità di cambiare strada, visto che nel frattempo ho anche preso un master in Nutrizione. Mi chiedo però se sia giusto che persone come me, gente che ha dedicato più di vent’anni alla ricerca, vivano un senso di abbandono tale da doversi arrendere”.

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