“Dottore, se io le dico che avevo problemi, io domani sono morto!”. E poi: “Dottore, vedete che poi non torniamo più a casa“. E ancora: “Se vi dico che non torniamo più, non torniamo! Sentite che vi dico…omicidio”. Piangevano, davanti ai pm raccontavano con le lacrime agli occhi che quel nome, il nome del boss al quale dovevano chiedere il permesso per lavorare, loro non avevano intenzione farlo. “Se vi dico che mi ammazzano dottore! Questi qua sono pazzi, non hanno niente da perdere”. “Ve lo dico sinceramente dottore, con il cuore in mano… sono due mesi che non dormo”. Alla fine, però, hanno trovato il coraggio di denunciare. E raccontare ai magistrati anni di minacce, estorsioni e taglieggiamenti. “L’impresa viene taglieggiata nel momento in cui viene ad iniziare un cantiere. Questa purtroppo nella nostra città è una prassi scontata“. L’alternativa? “La maggior parte delle imprese devono subire oppure rischiare in pratica ritorsioni oppure rischiare la vita”. Ci sono anche le storie degli imprenditori sotto scacco della ‘ndrangheta nell’operazione “Helianthus”, coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e dai pm Stefano Musolino e Walter Ignazitto. Al centro dell’inchiesta c’è la cosca Labate: 14 gli arrestati citati nell’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip Pasquale Laganà e notificata in carcere al boss Pietro Labate. Con l’accusa di associazione mafiosa ed estorsione, la squadra mobile ha arrestato pure Orazio Assumma, il braccio destro del boss che decideva ogni cosa al Gebbione, il quartiere di Reggio tra il torrente Sant’Agata e il torrente Calopinace.

L’inchiesta contro i “Ti mangio” – Le porte del carcere si sono spalancate pure per il cognato del boss, Rocco Cassone, Santo Gambello, Antonio Galante, Caterina Cinzia Candido, Francesco Marcellino, Fabio Morabito, Domenico Foti e Domenico Pratesi. In manette sono finite anche le nuove leve dei “Ti Mangiu”: i due omonimi Paolo Labate, di 38 e 36 anni, cugini e figli rispettivamente di Pietro e Nino Labate. Nei confronti di quest’ultimo, che si trova ricoverato in una struttura sanitaria, il gip ha disposto gli arresti domiciliari, così come per Santo Antonio Minuto detto “U Ceduzzu”. Ritenuto vicino alla cosca, Minuto gestisce una pescheria ed è accusato di essersi rivolto a Fabio Morabito e a Nino Labate per impedire a due fratelli di aprire un’altra pescheria nelle vicinanze. L’inchiesta Secondo il gip Pasquale Laganà, gli imprenditori che hanno denunciato il boss, “dopo anni di omertoso silenzio, hanno finalmente deciso di rialzare la testa e di ribellarsi all’imposizione mafiosa”. Durante la conferenza stampa, il procuratore Bombardieri non ha dubbi: “Gli imprenditori hanno dimostrato di voler fare questo salto di qualità e denunciare le cosche. Devono sapere che noi ci siamo e lo Stato c’è”. Nelle carte dell’inchiesta si riassume il percorso che ha portano molti di loro a ribellarsi al pizzo.

L’estorsione: “Sei uno scostumato” – È il 25 ottobre 2019 quando ai pm Musolino e Ignazitto l’imprenditore Francesco Presto racconta, con le lacrime agli occhi, la visita ricevuta dal boss Pietro Labate e dal suo uomo di fiducia, Orazio Assuma. “Sei uno scostumato” si è sentito dire dal boss e dal suo luogotenente che un giorno si erano presentati al cantiere dove la sua azienda edile stava costruendo un complesso immobiliare nel quartiere Gebbione, considerato il feudo dei “Ti mangiu”, come sono soprannominati i Labate. “Mi hanno rimproverato, mi hanno preso a male parole – ha spiegato Presto – mi hanno detto che sono andato a casa loro, che prima che andavo là gli dovevo chiedere il permesso, che sono scostumato, avete capito che mi hanno detto? Perché uno gli deve chiedere pure il permesso per lavorare, avete capito? Siamo in queste condizioni, avete capito? Che gli dovevo chiedere il permesso…che il lavoro era loro, che dovevano farlo loro, che loro si erano accaparrati il lavoro da prima… gli ho detto io ‘Ma scusate io vi sto offrendo il lavoro?’ dice ‘No tu stai zitto! Sei uno scostumato!… dice che gli dovevo dare 200mila euro ‘se fate il lavoro e se non lo fate’”.

L’imprenditore ai pm: “Vi affido la mia famiglia” – Prima di raccontaare ai pm le angherie subite, l’imprenditore fa qualche resistenza. Ha paura di essere ucciso, teme per i suoi parenti, piange e lo dice senza mezzi termini. Le sue parole sono la “dimostrazione plastica” del terrore che i Labate provocano nella zona sud di Reggio Calabria: “Dottore ma se io le dico che avevo problemi, io domani sono morto! Se vi dico che mi ammazzano dottore! Questi qua sono pazzi dottore, non hanno niente da perdere… vedete che non torniamo più a casa! Se vi dico che n0n torniamo più, non torniamo! Sentite che vi dico…omicidio”. La Procura insiste e Presto, prima di parlare, si rivolge ai magistrati con una richiesta: “Vi affido la mia famiglia”. Per i pm, Francesco Presto è “letteralmente terrorizzato al solo pensiero di dover pronunciare” il nome del boss. Il pm Musolino lo convince a fidarsi: “Non vi preoccupate, state tranquillo, ditemi tutto quello che dovete dire, la libertà vera vi viene da questa cosa qua e vi garantisco che lo potete fare. Non vi preoccupate, ce le sappiano gestire, vogliamo che restate a Reggio e che lavorate a Reggio Calabria”.

“Non ho dormito per mesi” – Solo dopo essere stato tranquillizzato dal sostituto della Dda, l’imprenditore capisce che è arrivato il momento di alzare la testa e spiega ai pm cosa è successo nel suo cantiere quando sono iniziati i lavori per il complesso residenziale. Un giorno all’improvviso da un garage è spuntato il boss Pietro Labate. “Forse era pure latitante, non ricordo, ho avuto paura… sono rimasto. – racconta l’imprenditore costretto a pagare il pizzo – Dottore io non ho dormito per mesi, non è una cosa che uno può accettare però non avevo altre cose da fare, il cantiere era iniziato… Ma come si torna indietro? Come si torna indietro! Che devo fare? E ho dovuto pagarli, dargli i soldi… veniva il signor Assumma a prenderseli… sempre lui, anzi il signor Labate mi ha detto che glieli dovevo dare solo a lui”.

“Così funziona il pizzo a Reggio Calabria” – Le minacce sono sempre le stesse, e vengono registrate dalla cimici della squadra mobile di Reggio Calabria, diretta da Francesco Rattà: “Tu come fai, come ti permetti”. “Qua mi devi dare conto… qua non ne fai né tu e neanche il padre eterno”. Le carte dell’inchiesta raccontano come il clan controllasse un pezzo di città: per muovere un mattone, aprire un negozio o semplicemente respirare, nel quartiere Gebbione serviva quello che i pm definiscono il “nulla osta” dei Labate. I “Ti mangiu” lo hanno preteso anche dall’imprenditore Francesco Berna, coinvolto l’estate scorsa nell’operazione Libro nero contro la cosca Libri. Ai pm, Berna ha raccontato come “Vecchia Romagna”, il soprannome di Domenico Foti, ha costretto lui e il suo socio, l’imprenditore Francesco Siclari, “a pagare a titolo di “pizzo” la somma di 20mila euro” per i lavori di un complesso immobiliare ricadente nella zona di influenza dei Labate. “L’impresa – fa mettere Berna a verbale – viene taglieggiata nel momento in cui viene ad iniziare un cantiere… cioè questa purtroppo nella nostra città è una prassi scontata, cioè non esiste, può esistere il piccolo lavoretto che non… va sotto… che passa sotto traccia, nel senso che nessuno si avvicina… ma se si tratta di cantieri dove ci sono fabbricati da realizzare o lavori pubblici da fare, difficilmente in pratica uno riesce a scappare al tentativo di estorsione, all’estorsione vera e propria… La maggior parte delle imprese devono subire oppure rischiare in pratica ritorsioni oppure rischiare la vita. Dipende dai rapporti che ci sono con i soggetti… chi è il soggetto che ti viene davanti, no? E si presenta”.

“La mattina ho paura a uscire di casa” – Convocato in Procura, l’imprenditore Francesco Siclari dice di non aver mai ricevuto richieste di denaro da parte dei Labate. Come Presto, anche lui ha paura e, in un primo momento, nega quanto dichiarato dal suo socio Francesco Berna. Poi però si fa coraggio e, ai due pm che lo interrogano, racconta come sono andate le cose: “Un giorno dice Francesco (Berna, ndr) ‘sai qua sicuramente saremo costretti a pagare un caffè’”. Il realtà, il “caffè” era il pizzo preteso dai Labate. Come ha spiegato il responsabile della sezione Reati contro il patrimonio della squadra mobile Giuseppe Izzo, i “Ti Mangiu erano in grado di costringere chiunque a consegnare loro il denaro”. “Abbiamo dato 20mila euro… io ho un nodo qua dottore. La pretesa era più alta…era 30mila euro… Dal 31 luglio ad oggi, tremo… io la mattina ho paura di uscire di casa. Prima che esco mi affaccio dal balcone, guardo la macchina, mi sveglio di notte e tutta una serie di cose perché ho pensato ‘ora questi da chi vengono?’ Da me. Ve lo dico sinceramente dottore, con il cuore in mano… sono due mesi che non dormo”.

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