Non ha fatto in tempo a fallire il convegno-specchietto-per-le-allodole organizzato da Salvini sull’antisemitismo, disertato da Liliana Segre e dagli esponenti delle comunità ebraiche, che già s’avvicina il Giorno della Memoria: il 27 gennaio. Solo a Trieste, nei prossimi giorni, si terranno due eventi imperdibili. Il 22 gennaio, in via Filzi, all’ex Narodni Dom degli sloveni, la settima edizione di Convivere con Auschwitz: sottotitolo di quest’anno, La Memoria sotto scorta. Poi, il 24, nell’Aula Magna di Piazzale Europa, ci sarà l’inaugurazione dell’anno accademico, con il conferimento della laurea honoris causa a Tatiana e Andra Bucci, sopravvissute istriane ad Auschwitz, e sottolineo istriane. I distratti inevitabilmente si chiederanno se non ci sia nulla di più urgente di cui parlare: che c’importa, oggi, di antisemitismo e razzismo?

E qui devo raccontare una storia che ho scoperto da poco, grazie al mio amico Manuel Anselmi e nonostante che, su queste cose, avessi già scritto due libri, Non c’è sicurezza senza libertà (2017) e Come internet sta uccidendo la democrazia (2020). Verso la fine del Novecento ci si accorse improvvisamente di uno strano fenomeno: i reati diminuivano, eppure le galere non erano mai state così piene. I criminologi lo chiamarono populismo penale, senza immaginare che sarebbe stato il predecessore del populismo politico. Insomma: i governi neoliberisti, di destra e di sinistra, avevano scoperto il trucco per tagliare i servizi sociali e vincere lo stesso le elezioni. Funziona così, oggi più di ieri: parla di sicurezza, di criminalità, di immigrazione, e la gente ti vota anche se le tagli le pensioni.

Qualcun altro si chiederà: ma come si fa a essere razzisti e antisemiti nel terzo millennio? Con la teoria delle razze, sostenuta per almeno un secolo dagli scienziati e poi applicata da Hitler, è un po’ come quando i giornali denunciano uno scandalo in prima pagina e poi, sei mesi dopo, in un trafiletto all’interno, ammettono di essersi sbagliati. Oggi non c’è più uno scienziato che creda all’esistenza delle razze, ma migliaia di psicolabili sì, e non solo perché rimbambiti da internet. Il fatto è che Homo Sapiens ha vissuto per millenni in branchi di cacciatori che si sterminavano l’un l’altro, sicché noi siamo i pronipoti di Caino, i nipotini delle scimmie che hanno vinto: quelle buone sono tutte morte. Così Gilberto Corbellini, nel suo ultimo libro intitolato Nel paese della pseudoscienza (2019), scrive che razzismo, antisemitismo e xenofobia sono nel nostro Dna. E su Internet, aggiungo io, lo scimmione che è in noi inesorabilmente ritorna.

Spiegateglielo così, ai ragazzi che vi chiedono perché, settantacinque anni dopo, abbiamo ancora il dovere della Memoria. Spiegateglielo così, invece di raccontargli favole come l’amore dell’umanità e il politicamente corretto. E già che ci siete, ditegli pure che lo zio Adolf e i sei milioni di morti non sono decisivi: il baffone Stalin, di morti, ne ha fatti molti di più. Il problema vero è che lo scimmione urla ancora nei nostri smartphone, mentre noi vogliamo restare umani.