Katia Crascì, nata a Tortorici nel 1979, aveva chiesto contributi per i suoi terreni all’Unione europea. Peccato che nei “suoi” terreni figuravano anche quelli in gestione alla Nato e alla Marina americana (U.S Navy). Cioè gli stessi dove sorge il sistema di Muos, la maxi antenna di comunicazione satellitare americana. C’è anche la base americana di Niscemi tra quelli al centro della maxi inchiesta della procura di Messina sulla cosiddetta “mafia dei pascoli“: 94 indagati, 48 in carcere e il resto agli arresti domiciliari. Dall’operazione del Ros di Messina e della Gico della Guardia di Finanza, però, emerge come quella dei Nebrodi, storicamente considerata di impronta prettamente rurale, abbia ormai un “nuovo volto”. Di più: l’ufficio inquirente guidato da Maurizio De Lucia ha rivelato invece la “strategia della nuova mafia di Tortorici, non estorsioni di base ma truffe sistematiche ai danni dell’Unione europea, in realtà dello Stato e sempre con in risultato di usare e dominare il territorio, o fisicamente o virtualmente”.

In questo modo otteneva l’attestazione falsa dei terreni, grazie alla connivenza di operatori dei Centri di assistenza agricola, che individuavano telematicamente i terreni non attivi e li indicavano agli indagati che se ne attestavano la titolarità anche grazie a prestanomi per poi richiedere i contributi pubblici. Tra gli operatori dei centri di assistenza agricola anche l’attuale sindaco di Tortorici (all’epoca dei fatti in uno dei Caa), finito tra gli arrestati e sospeso dalla guida dell’amministrazione dalla prefettura di Messina. Tra i terreni al centro delle truffe non solo quello dove sorge il Muos di Niscemi, ma anche quello dove da anni c’è l’aeroporto di Boccadifalco, a Palermo: anche questo era stato dichiarato come terreno agricolo in possesso dell’organizzazione. Episodi perlomeno paradossali che però rivelano il “nuovo volto” della mafia Nebroidea.

Ma i terreni al centro delle frodi sono diversi. Un affare che ha fruttato da 150 a 200mila euro a testa l’anno, per una cifra complessiva di 10 milioni di euro. Il clan dei Nebrodi usava mezzi virtuali ma pur “sempre un ritorno alla terra – scrive il gip di Messina, Salvatore Mastroeni – alla roba verghiana, solo che la terra, la roba, è quella altrui e serve a carpire denaro a pioggia che torna dall’Europa”. Terra spesso demaniale, intestata anche a soggetti deceduti da 8 o 10 anni. Un sistema messo in atto con plurime connivenze, con “diffusa omertà”, ma anche con estorsioni e intimidazioni. Dall’inchiesta è emerso, infatti, un controllo del territorio da parte di una mafia in grado di rapportarsi con i clan più potenti del resto della Sicilia, da pari a pari. U Uappu, al secolo Sebastiano Bontempo, emerge dalle indagini come capo indiscusso del clan dei Batanesi, il gruppo più potente, che prende nome da una delle 72 contrade di Tortorici ma si radica anche in un’altra provincia, a Centuripe, cioè ad Enna, a riprova di un ruolo da “collante” tra diversi territori, province e procure: quattro in tutto tra Messina, Catania, Enna e Caltanissetta.

Un territorio noto per il controllo mafioso già dagli anni ’90, ma sul quale dal 2007 al 2016 non era stata più avviata nessuna indagine. L’ultima, che ha avuto un primo esito oggi, ha inizio nel febbraio del 2016, mesi prima dell’attentato subito dall’allora presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, avvenuto nella notte del 18 maggio. Solo due settimane prima quei colpi esplosi sulla blindata che trasportava Antoci, sui Nebrodi si festeggiava con champagne il ritorno a casa del boss Sebastiano Bontempo, dopo 24 anni di carcere scontati per omicidio. Grandi festeggiamenti al ristorante Rinazzo per il ritorno del capomafia indiscusso – stando ai rilievi degli inquirenti – al quale sottostava anche il secondo clan dei tortoriciani, che fa capo ai Bontempo Scavo. Il rapporto grazie al quale i Bontempo ottengono terreni senza che i reali proprietari possano battere ciglio: Ignazio Di Vincenzo, per esempio, ha concesso i suoi 15 ettari di a Gino Bontempo e Slvatore Costanzo Zammataro, senza alcun pagamento. Due contratti stipulati a nome della figlia di Bontempo, Lucrezia, e un altro a favore di una società. “Egli non è amico né conosce Bontempo Gino – scrive Mastroeni – eppure questi lo convoca, lui si presenta e cede i suoi 15 ettari non ricevendo niente in cambio, e sapendo, in entrambe le occasioni che sarebbe finita cosi. Il dato che spiega, amaramente, tutto è che Bontempo Gino è appena uscito dal carcere. La richiesta di presentarsi, dei contratti sui terreni sono l’esercizio di una intimidazione diffusa ed evidente, un mafioso non ha bisogno di minacciare, se chiede una cessione gratuita dietro c’è il peso della forza della mafia”. Tra le persone coinvolte nell’inchiesta anche un notaio di Canicattì, Nino Pecoraro e una decina di dipendenti dei Caa. “Questo processo, nei comportamenti degli imputati, riecheggia il protagonista delle “Anime Morte” di Gogol – continua il gip – lì il commercio era di soggetti e servi morti, qui di un territorio pure praticamente morto perché sottratto ai proprietari, e anche allo sviluppo e agli aiuti, dai mafiosi. Ma forse anche anime, perché soffocato è l’intero territorio e i suoi abitanti”.

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