La scuola italiana non funziona. Questo è l’assunto: pacifico, palese, innegabile. Anzitutto per una questione di soldi, come abbiamo visto la volta scorsa. Per le necessarie economie, i dipendenti del Miur sono stati tagliati dal mancato turn over e scarse assunzioni. Il che determina l’innalzamento dell’età media (su cui dovremo seppur brevemente tornare) in un generale peggioramento delle condizioni di lavoro.

Tutti, docenti e non, sono stati progressivamente mortificati; non solo perché malpagati ma per il clima pesante che si è creato dentro e fuori le aule, dove serpeggiano invidie, dissapori, rancori, accuse reciproche. Si aggiunge il calo di reputazione sociale generato certo dal comportamento irresponsabile e scarsa professionalità di una parte degli insegnanti; ma anche dalle guerre tra poveri alimentate da dichiarazioni dei vertici dello Stato, riprese e amplificate dai media.

Oggi i pochi, sporadici lampi di eccellenza sono dovuti alla buona volontà, che spesso sfiora l’abnegazione, di chi è talmente innamorato del proprio mestiere da svolgerlo con spirito di servizio, al di là di ogni altra considerazione. Il calo negli organici si sarebbe potuto far procedere di pari passo con l’altro annoso problema che affligge il mondo della scuola e più in generale la nostra società: il calo demografico. Con il risaputo calo della fertilità e della natalità, in assenza di un benché minimo accenno di politica demografica, il numero degli studenti si è ridotto notevolmente.

Si sarebbe creata l’occasione per mettere in atto l’unica riforma che realmente avrebbe potuto cambiare nel profondo il mondo della scuola dal punto di vista sia dei docenti che degli studenti: classi con non più di 15 elementi. È solo così che si può garantire una didattica equilibrata ed efficace, consentendo di lavorare con una certa serenità e seguire tanto i migliori, che possono essere valorizzati avviandoli verso approfondimenti e potenziamenti, quanto soprattutto chi incontra difficoltà che possono essere sanate se affrontate per tempo con azioni di recupero mirate. Meglio ancora superare il concetto di classe, liberare finalmente i ragazzi inchiodati per ore su striminziti banchi (peraltro repressi da un’educazione fisica considerata meno della religione) per favorire la didattica laboratoriale e puntare ai percorsi individualizzati.

Al contrario, si è andati verso classi-pollaio di 30 alunni, con gli insegnanti relegati al ruolo di bambinai (più spesso di domatori), costretti a puntare sulla media ribassata della massa indistinta, con lezioni in cui i migliori si annoiano e i meno capaci si disperdono senza lasciare tracce, al punto da non ricordarne neanche il nome.

Al tempo stesso i docenti sono assoggettati al meccanismo infernale secondo cui gli organici, cioè in sostanza i posti di lavoro, sono determinati in base alle classi che loro stessi sono in grado di formare. Il messaggio, più o meno velato, è: se si boccia non si raggiunge il numero minimo per formare la classe e tu perdi la cattedra. Di qui, scrutini farseschi fatti di compromessi necessari ma indecorosi, da cui partono messaggi devastanti agli studenti, sia ai migliori che anche ai peggiori, che si fanno una strana idea del valore dei titoli di studio, anche di chi l’aveva conseguito in tempi diversi in cui toccava sudarseli.

Come ulteriore beffa, gli stessi insegnanti trovano uno dei pochi modi per arrotondare appena le proprie scarse retribuzioni partecipando all’orientamento: si tratta di assecondare la pessima idea della scuola-azienda che deve farsi propaganda e vendersi come un prodotto nel mercato; ristretto peraltro dalla contrazione della domanda di studenti sempre più rari di fronte all’ipertrofia di indirizzi, alcuni decisamente ammiccanti come i licei sportivi o alcuni noti diplomifici professionali.

Già anni fa mi trovai ad accompagnare una collega in tour promozionali nelle scuole medie in cui il pezzo forte dell’offerta, piazzato abilmente in un punto cruciale del discorso con studiata enfasi, era la prospettiva della doppia ricreazione, accolta dal tripudio della platea di ragazzini. Anticipavamo la logica del “più pilo per tutti”.

Il problema demografico, dicevamo, colpisce anche sull’età degli insegnanti bloccati in servizio dalla riforma delle pensioni. Da un eccesso all’altro: dagli anni allegri dei baby pensionati alla soglia dei vent’anni di servizio, alla Fornero (temporaneamente sospesa dalla quota 100) che porterebbe direttamente dalla cattedra alla tomba.

In conclusione, ci ritroviamo in classe anziani screditati, stanchi, demotivati, con una distanza dagli studenti che non è solo quella che li separa dai nonni, neanche dai genitori, ma che è soprattutto un divario incolmabile di interessi, persino di linguaggi. Mondi che, neanche con la buona volontà, non comunicano tra loro: da una parte i nativi digitali, dall’altra c’è ancora qualcuno che non sa neppure accendere un computer.

Non si può che sperare in una politica che sarà capace di riprendere il proprio ruolo di progettare il futuro, cosa che naturalmente e automaticamente passa innanzitutto per un ripensamento dell’intero sistema dell’educazione.

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