La scuola italiana è malata, di una malattia ormai cronica. È nello stesso tempo causa ed effetto di un malessere più generale. Crea disastri e subisce i disastri delle altre istituzioni con cui è intimamente connessa: la famiglia, le autorità civili e religiose – con la loro crisi provocata da una politica culturale inesistente, passata negli ultimi decenni soprattutto per la televisione “deficiente” -, scardinano l’impianto scolastico e sono a loro volta scardinate da una formazione (un’educazione, nel senso che gli inglesi danno al termine) carente da tutti i punti di vista.
Faccio l’insegnante da un quarto di secolo e di cose da dire ne avrei per riempire un trattato. Con i limiti di tempo e spazio di un blog possiamo al massimo limitarci a qualche sporadico accenno. Innanzitutto ai problemi strutturali, non solo per l’edilizia per lo più vecchia, cadente, fatiscente, con le norme sulla sicurezza quasi sempre superate in deroga, ma anche per l’insufficienza dei fondi per i materiali didattici. Nell’era della rivoluzione tecnologica, nelle scuole italiane fare una fotocopia è un’impresa eroica. E non certo per la digitalizzazione e smaterializzazione, ma perché mancano la carta, il toner o addirittura la fotocopiatrice.
Da noi si investe in istruzione, ricerca e sviluppo una percentuale del Pil irrisoria rispetto ad altri contesti, che negli ultimi tempi sono cresciuti a ritmi ben più elevati. Abbiamo avuto diverse riforme della scuola, più o meno una ogni governo che si è succeduto (di destra e sinistra senza distinzioni). Se la riforma Gentile, che fu approvata in epoca fascista e di quel regime fotografava e tramandava i valori e i limiti, aveva una sua idea di fondo ed è durata fino ai nostri giorni, negli ultimi anni ogni ministro ha voluto la sua riforma, dimostrando un respiro talmente corto che la Berlinguer non è sopravvissuta neanche alla successiva Moratti, quindi alla Gelmini, alla “buona scuola”, lasciando per lo più segni marginali limitati a aspetti secondari degli esami di maturità o di riparazione. In nessun caso si sono voluti affrontare i problemi seri, che incidono nel profondo della nostra crisi.
È parso che, più che nel ministero dell’Istruzione, le norme fossero dettate da quello dell’Economia, dove si cercavano appunto “economie” per permettere ai governi di rientrare nei parametri sottoscritti per il rispetto dei vincoli di bilancio interni e internazionali. Una politica dalle prospettive sempre più ridotte ha bisogno di finanziare misure di propaganda immediata per il primo appuntamento elettorale che potevano essere, a seconda dell’orientamento, l’abolizione delle imposte sugli immobili, gli 80 euro, il reddito di cittadinanza e la quota 100.
Quindi, quella che pomposamente viene chiamata spending review si traduce in tagli indiscriminati delle spese pubbliche, in primis nell’istruzione (a cui si può rinunciare allegramente insieme all’altro bene secondario, la salute, col conseguente carrozzone). Di qui, accorpamenti di istituti, pluri-reggenze dei dirigenti, segreterie a scavalco, taglio degli organici, blocco del turn over, aumento studenti per classe, abbreviazione dei corsi.
Riguardo ad accorpamenti e riduzioni orarie, valga la mia testimonianza diretta: all’inizio noi, come scuola di Rebibbia, dipendevamo dall’Itc “G.Martino”; questo poi è stato accorpato nel “J.von Neumann” che ha assorbito anche la scuola di Via del Tufo; Tutto questo, che già contiene la complessità di Rebibbia – con tre indirizzi dislocati tra quattro diverse direzioni non comunicanti tra loro, con proprie diverse autorizzazioni – è stato affidato come reggenza a una Dirigenza che già aveva sotto di sé altre due scuole, per arrivare a un sovraccarico di lavoro umanamente insostenibile.
Personalmente, facevo le mie 18 ore settimanali di lezione (che non sono affatto poche, sfido chiunque la pensi diversamente), divise in 6 ore in tre classi nello stesso settore del carcere. Gradualmente, hanno ridotto le cinque classi a tre “periodi didattici”, poi le ore di lezione complessive, quindi le ore delle singole discipline e oggi mi ritrovo col doppio delle classi dislocate, tra mattino e pomeriggio, in quattro diversi reparti del complesso penitenziario. In sostanza, considerati gli spostamenti, è più che raddoppiato il mio tempo di servizio.
Voglio approfittare per smentire, si spera una volta per tutte, l’altra panzana che ogni tanto riemerge riguardo ai tre mesi di vacanze estive. Tra relazioni finali e scartoffie varie, scrutini ed esami, si va a finire al mese di luglio. Se poi ci aggiungiamo i progetti (su cui dovremo aprire un paragrafo a parte), si va talmente oltre che, ad esempio, lo scorso anno scolastico la mia ultima attività porta la data del 30 luglio. All’inizio di settembre si ricomincia con le riunioni collegiali di preparazione per il nuovo anno.
In sostanza, siamo tenuti a compilare un modulo per le ferie estive di 35 giorni, come ogni dipendente pubblico. Altro che lunga estate! Senza dire che, soprattutto se nella chiusura delle attività si incontrano problemi, è sempre più vero che, più che in ferie, d’estate gli insegnanti vanno in convalescenza.