Boris Johnson, in vista delle prossime elezioni politiche del 12 dicembre, fa di tutto per galvanizzare gli elettori favorevoli alla Brexit dura. Le elezioni però si giocheranno prevalentemente su altro: saranno un referendum sul ruolo dello Stato come guida dall’economia e garante del progresso sociale. I media di destra, che lo hanno ben chiaro, e denunciano che i piani di spesa del Labour costerebbero 1500 miliardi di euro, cioè quasi il doppio dell’intera spesa pubblica italiana.

La Gran Bretagna ha segnato a più riprese il tono nel continente europeo. Le elezioni del 1945 furono vinte a sorpresa, e con grandissimo margine, dal laburista Clement Attlee contro Winston Churchill, eroe della seconda guerra mondiale e idolo di Johnson che gli ha dedicato il bestseller The Churchill Factor. Attlee riprese alcune delle indicazione del celebre rapporto di William Beveridge del 1942 sulla necessità di superare il liberalismo ottocentesco per dar vita ad uno “Stato sociale” in grado di proteggere i britannici dalla culla alla tomba. Già nel 1946 i laburisti crearono il National Health Service (NHS) e subito dopo avviarono un programma di nazionalizzazioni che portò sotto il controllo statale il 20 per cento dell’economia, dall’industria del carbone, alle reti ferroviarie a quelle elettriche. Il governo Attlee segnò il tono della politica economica britannica per oltre un trentennio. Molti Paesi dell’Europa continentale seguirono, ognuno secondo le proprie peculiarità, sia con nazionalizzazioni, sia con la creazione di strumenti di welfare a carattere universalistico. Furono gli anni d’oro del “modello keynesiano” in Europa.

Nel 1979 la Gran Bretagna inaugurò una nuova fase nella politica economica del Continente. Vinse le elezioni Margaret Thatcher con un programma economico “neoconservatore” che puntava a rilanciare la nazione, allora considerata “malato d’Europa”, allontanando Stato dal controllo diretto dei settori vitali (commanding heights) dell’economia, rafforzandone al contempo la funzione di garante dell’economia di mercato e tutore dell’ordine pubblico. Ridurre il BSBR (Public Sector Borrowing Requirement) diventò il mantra conservatore: la spesa pubblica andava ridotta a forza di privatizzazioni, lasciando spazio all’iniziativa privata e al taglio delle tasse per le imprese. Dopo aver vinto la resistenza del sindacato dei minatori, e non senza aver innescato la più grave crisi sociale dal Dopoguerra, la Thatcher avviò un piano di privatizzazioni che riguardo le società petrolifere (BNOC e BP), quelle del gas (British Gas), quelle dell’acqua, delle telecomunicazione (BT), dei trasporti (British Airways e British Rail), e altre ancora. Le privatizzazione britanniche degli anni 80 posero le basi di un modello di “governance” del settore dei servizi in parte adottato dall’Unione europea nel corso degli anni 90, con autorità di regolazione da una parte, e società di gestione private, in competizione fra loro, dall’altra.

Obiettivo dei privatizzatori era favorire un management efficiente (grazie a salari più competitivi), stimolare la produttività, aumentare la capitalizzazione delle società di servizio senza costi per i cittadini, ottenendo al contempo servizi migliori a prezzi più bassi. La Gran Bretagna è il Paese europeo nel quale la logica privatistica nel settore delle reti e servizi si è spinta più avanti. Il risultato, trenta anni dopo, è sotto gli occhi di tutti i cittadini britannici. Le ferrovie sono carissime e disfunzionali. Il caso dell’acqua privatizzata è clamoroso: costi alti, investimenti scarsi, dividendi per gli azionisti lievitati (in alcune aziende questi superano gli stessi profitti), un indebitamento che, partito da zero nel 1989, è oggi lievitato a quasi il 50 per cento del capitale. Il paragone con le aziende dell’acqua in Scozia, rimaste pubbliche, è a tutto vantaggio di quelle scozzesi. Il risultato, secondo lo stesso Financial Times, è che oggi l’83 per cento dei cittadini britannici preferirebbe rinazionalizzare l’acqua, il 77 per cento vedrebbe bene il ritorno dello Stato nelle reti elettriche.

E’ questo il contesto in cui si inserisce la sfida del tra Corbyn e Johnson (favorito nei sondaggi). Johnson si impegna a sostenere la scuola e l’NHS, nonché a siglare accordi di libero scambio con mezzo mondo, in particolare con Canada e Stati Uniti. Non rimette però discussione 30 anni di privatizzazioni andate a male. Corbyn invece, come scritto nel manifesto Labour appena pubblicato, sostiene tra l’altro la creazione di un Fondo per la “trasformazione verde” di 400 miliardi in modo da creare 1 milione di posti di lavoro nelle nuova tecnologie e raggiungere crescita zero delle emissioni nette di CO2 per gli anni 30. Propone poi, oltre all’ingresso dei lavoratori nell’azionariato delle grandi aziende private, la parziale rinazionalizzazione di BT per offrire Internet a banda larga gratuito a tutti i cittadini britannici, nonché quella delle ferrovie, delle società idriche, della rete elettrica e delle Big Six che distribuiscono elettricità.

Con un successo di Corbyn, il re della “competizione” che ha portato l’Unione europea ad imporre liberalizzazioni e privatizzazioni, si scoprirebbe un poco più nudo, e tornerebbero in auge pianificazione e controllo pubblico dei settori strategici come acqua, autostrade, reti elettriche. Si potrebbe (forse) avviare un ripensamento della logica del Mercato Unico. Sarebbe il modo migliore per riavvicinare Bruxelles ai cittadini.

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