di Diego Battistessa*

La polveriera boliviana è esplosa. La capitale del paese La Paz e la città limitrofa di El Alto sono in fiamme. I sostenitori del Mas, il partito dell’ormai ex presidente Evo Morales, hanno preso possesso delle strade e iniziato una difesa a oltranza contro quello che definiscono un golpe de Estado. Tutto sta succedendo rapidamente, le informazioni sono poche, spesso contraddittorie e molti giornali nazionali oggi sono rimasti chiusi. Andrés Manuel Lopez Obrador, presidente della Repubblica Messicana, ha teso una mano amica verso Evo offrendogli sostegno e asilo in queste ore buie.

Una cosa però è certa: Evo Morales si è dimesso dall’incarico di presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia. Lo ha fatto ieri, dopo le forti pressioni interne ed esterne che hanno messo in discussione il risultato delle elezioni presidenziali del passato 20 di ottobre. In un messaggio televisivo sulla rete nazionale, Morales ha chiarito i motivi della sua rinuncia asserendo di aver subito un golpe civico e che il suo passo indietro si deve alla volontà di riappacificare il paese.

Otto ore prima aveva ceduto alle richieste internazionali della Oea e dell’Ue di celebrare nuove elezioni, ma questa concessione non è riuscita a fermare l’escalation di dimissioni di alti dirigenti del suo partito. Centrale nella decisione di Evo anche il fatto di non poter più contare sul sostegno delle forze dell’ordine. Le stazioni di polizia delle città di Cochabamba, Beni e Santa Cruz si sono ammutinate la scorsa settimana e proprio ieri è arrivato l’invito a Morales del comandante generale della Polizia boliviana, Yuri Calderón, a dimettersi per fermare gli scontri nelle città.

Nel suo discorso di rinuncia, Morales ha denunciato la violenza subita dai funzionari pubblici del Mas, manifestando il suo ripudio verso azioni intimidatorie e vessatorie portate avanti da simpatizzanti delle formazioni oppositrici. Ha parlato di case incendiate, di familiari di alti dirigenti del partito di governo minacciati e di come la sua stessa famiglia stesse subendo intimidazioni. Dimissionario anche il vicepresidente, Álvaro García Linera, che lascia quindi l’incarico di formare un nuovo governo alla presidentessa del senato, Adriana Salvatierra Arriaza. La giovane leader del Mas (ha solo 30 anni) non potrà però fare molto, vista la situazione di caos nella quale versa il paese. Lo scenario più probabile sono ora nuove elezioni e un governo transitorio che possa pacificare la situazione.

Tre settimane è durato il braccio di ferro tra l’opposizione, capitanata in questa ultima fase da Luis Fernando Camacho, ed Evo Morales. Gli scontri e le proteste sono iniziati il lunedì successivo alle elezioni come conseguenza della sospensione del conteggio dei voti operata dal Tribunale supremo elettorale. I primi scrutini consegnavano la vittoria a Morales ma con un margine non superiore al 10% dei voti rispetto a Carlos Mesa, leader dell’alleanza politica Comunidad Ciudadana con lo slogan “Ya es demasiado” (“Ormai è troppo”).

Senza uno scarto superiore al 10% e senza raggiungere il 51% per cento dei consensi, Evo Morales avrebbe dovuto sottoporsi ad una seconda tornata elettorale. Insieme a Mesa, guidava le prime proteste l’autonomista Oscar Ortiz, con lo slogan “21-F Bolivia Dice No”: facendo riferimento al referendum celebrato il 21 febbraio 2016.

Proprio da quel referendum si comincia a intravedere l’inizio della fine per il progetto politico di Evo Morales e del Mas. In quel febbraio di tre anni fa viene chiesto ai boliviani di autorizzare una modifica parziale alla nuova costituzione del 2009, modifica che avrebbe permesso ad Evo di aggirare lo scoglio dell’incandidabilità alla presidenza dopo aver compiuto già due mandati.

Quella che avrebbe dovuto essere l’ennesima prova di forza di Evo si è trasformata nella sua più grande sconfitta: la Bolivia ha votato no, determinando quindi l’inizio di un nuovo corso politico per fine 2019. Evo Morales però non ha accettato il verdetto delle urne e ha interposto una petizione d’appello al Tribunale costituzionale plurinazionale (Tcp). Lo stesso tribunale nel 2018 ha sancito il diritto di Morales a candidarsi alle elezioni e gli ha garantito quindi la possibilità di perpetuarsi nel potere fino al 2025. È questa la situazione di tensione con la quale si è arrivati al 20 di ottobre, una domenica che ha aperto la strada alle proteste che hanno cambiato il destino del paese.

* Docente e ricercatore dell’Istituto di studi Internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” – Università Carlos III di Madrid. Latinoamericanista specializzato in Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Migrazioni.
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