“Cominciamo con una buona notizia: abbiamo vinto alla prima tornata…”. Questo aveva detto Evo Morales lo scorso 24 ottobre aprendo una conferenza stampa convocata poco prima che il Tse (Tribunal supremo electoral) comunicasse l’esito “definitivo” delle elezioni presidenziali. E assai probabile è che quelle sue parole – pronunciate con trionfali accenti di fronte ad un paese che, da quattro giorni, era in molto scettica ed effervescente attesa – intendessero placare, se non ogni dubbio (cosa impossibile dati i sobbalzi e le incoerenze dello scrutinio), quantomeno ogni tumulto e ogni protesta.

Game over. Evo aveva vinto di nuovo. Aveva, di nuovo, vinto senza bisogno d’alcun secondo turno, nonostante i consueti “tentativi di golpe”. E, di nuovo – dopo quattordici anni d’ininterrotta presidenza – si preparava a governare la Bolivia “almeno” fino all’anno del Signore 2025. Si sbagliava, Evo Morales. E si sbagliava su tutta linea. Perché quella “notizia”, da lui troppo frettolosamente presentata come “buona”, altro in realtà non era che il preludio d’una serie di pessime nuove – pessime per lui e, quel che è peggio, pessime per la Bolivia – culminate ieri con quella che sembra essere una sua definitiva e per molti versi umiliante uscita dalla scena politica.

È stato il suo – se davvero di questo si tratta – un tristissimo addio, mestamente annunciato, in rapidissima sequenza, con due successive e “inevitabili” decisioni. Quella (molto responsabile e, a suo modo, coraggiosa, ma probabilmente tardiva) di convocare nuove elezioni a fronte delle numerose e gravi irregolarità riscontrate nella “auditoria” del voto condotta dall’Organizzazione degli Stati Americani. E, subito dopo – rispondendo a un molto perentorio invito del generale Williams Kaliman, capo delle Forze Armate – quella di rassegnare, “per il bene e per la pace della Bolivia”, le sue dimissioni da presidente, denunciando un “golpe civico, politico e poliziesco”.

Il tutto sullo sfondo d’un paese inferocito e diviso, dilaniato da una violenza che va ora cupamente evocando – in un susseguirsi di manifestazioni, di sanguinosi scontri, incendi, cacce all’uomo e blocchi stradali – antichi e orripilanti fantasmi. Gli stessi fantasmi – quelli delle dittature militari, del razzismo, della prepotenza oligarchica, della discriminazione e dell’odio – che la sua presidenza, la prima conquistata da un indigeno nel nome d’una nuova democrazia finalmente fondata sui diritti negati delle popolazioni originarie sembrava avere, se non del tutto esorcizzato, quantomeno attenuato.

La Bolivia nella quale, ora, dovrebbero – non è chiaro in quali termini – tenersi nuove presidenziali sotto la guida d’un Tse totalmente rinnovato, è un paese che sembra ritornato indietro nel tempo, come inghiottito in un vortice d’oblio. Quasi che i 14 anni di presidenza di Evo Morales – 14 anni che hanno visto, con il varo della Costituzione del 2007, la nascita dello “Stato multinazionale” e straordinari successi economici che, sebbene consumati nel nome del “socialismo del XXI secolo”, sono stati esaltati per la loro indiscutibile efficacia anche dal Fondo monetario Internazionale – fossero stati d’acchito cancellati, con il proverbiale colpo di spugna.

Quattro anni fa, quando il primo presidente indigeno aveva, per la terza volta consecutiva, conquistato con larga maggioranza il Palacio Quemado, i termini del suo trionfo erano apparsi più chiari che mai. Nonostante la reiterazione d’una molto datata retorica anti-imperialista e anti-capitalista, Morales – in gran parte per merito del vice-presidente Álvaro García Linera, vera forza strategico-intellettuale del suo governo – era riuscito (all’opposto di quanto accaduto in Venezuela) a definire un modello economico perfettamente funzionante (quello che García Linera chiama, per l’appunto, un modello di “capitalismo andino”), capace di garantire altissimi tassi di crescita e, insieme, livelli di redistribuzione della ricchezza dalla Bolivia mai prima conosciuti. Ed era stato su questa base che Morales aveva, in nove anni, compiuto una sorta di miracolo politico-sociale.

Nel 2005, Evo aveva vinto grazie soltanto al quasi plebiscitario appoggio delle popolazioni indigene. Ma c’era una metà del paese – la più ricca e produttiva – dove Morales era, da una maggioranza, considerato un intruso (o un “macaco”, come la destra più razzista ama definire gli indigeni). Nove anni più tardi, la distribuzione del voto indicava come il consenso per lui e per il suo governo avesse sanato, almeno statisticamente, la persistente, feroce spaccatura tra le regioni andine – dove da sempre Evo godeva di maggioranze bulgare – e la cosiddetta “mezza luna“(Pando, Beni, Tarija e Santa Cruz), vero motore economico del paese. Non tutto era impeccabile, democraticamente parlando, nel suo “Stato multinazionale”.

Ma nessuno poteva a quel punto dubitare che, in meno d’un decennio, sullo sfondo della più favorevole congiuntura economica di sempre, Morales avesse trasformato una “non-nazione” storicamente marcata dall’apartheid anti-indigeni, da una proverbiale instabilità politico-economica e da una cronica povertà, in un paese unito, molto più prospero e meno diseguale. Nessuno – non il maresciallo Andrés de Santa Cruz, el gran ciudadano restaurador de la Patria, che fu presidente tra il 1829 e il 1839, e non Victor Paz Estensoro, protagonista della rivoluzione del 1952 – aveva prima di lui governato tanto a lungo e con una tanto unificante efficacia.

Ovvia domanda: in che modo Morales è precipitato da queste eteree vette all’abisso dell’addio ieri sancito dalle sue dimissioni? La gran caduta s’è dipanata in 3 semplici mosse, tutte sospinte da un vento – quello prepotente del caudillismo – che sempre è stato organica parte, o il lato oscuro se volete, dell’ “Evo-pensiero”. Prima mossa: indire (e perdere) un referendum destinato a cambiare la Costituzione del 2007 (la “sua” Costituzione), per regalare a se stesso un quarto (ed eventualmente un quinto e un sesto) mandato.

Seconda mossa: non accettare la sconfitta – una sconfitta che, paradossalmente, era proprio il riflesso dell’evoluzione democratica da lui promossa – e chiedere a un Tribunal supremo de justicia a lui asservito di sentenziare il suo diritto (un “diritto umano” come, sfidando il ridicolo, avrebbe poi di fatto sancito il Tsj) a partecipare a nuove elezioni.

Terza mossa: partecipare alle elezioni e vincerle per un 0,5%, in un contesto – quello d’un conteggio marcato da un lungo e ingiustificato blackout – appestato dal fetido odore della frode.

È stato a questo punto che la Bolivia gli è esplosa nelle mani. Esplosa al punto che – in un’atmosfera da guerra civile – è impossibile ora capire dove andranno a finire i frammenti dello “Stato multinazionale” da Morales creato. Anche Carlos Mesa, il candidato della più grande formazione d’opposizione – un centrista dalle più che rispettabili credenziali democratiche – ha ormai evidentemente perso il controllo della piazza. E dalle ceneri dell’esplosione emergono sempre più sinistre ombre. Quella antica dei militari. E quella di Luis Fernando Camacho, leader dei comitati civici e rappresentante della destra più estrema e violenta.

Si trattasse d’una favola la si potrebbe concludere così. C’era una volta un grande presidente, il più grande che la Bolivia avesse mai conosciuto. Poi quel presidente cercò di farsi re. E di lui ora non resta che l’immagine d’un piccolo caudillo autodistrutto dalla propria ansia di potere. Della Bolivia non resta, invece, che un paese in fiamme. Un paese nel quale nessuno potrà, domani, vivere felice e contento.

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