La maggioranza ha di nuovo un problema con l’immunità penale per l’ex Ilva. E l’approdo al Senato del decreto Salva-Imprese, che contiene la norma, slitta di sei giorni. Avrebbe dovuto andare in Aula oggi, poi è stato posticipato a giovedì. Alla fine la conferenza dei capogruppo ha sconvocato la seduta per l’esame del testo, facendolo slittare al 22 ottobre. La questione, in realtà, più che riguardare i rapporti tra le due forze di governo, è tutta interna al Movimento Cinque Stelle.

Dopo aver tolto del tutto lo scudo dai processi per i gestori dell’acciaieria tarantina ed aver fatto marcia indietro per evitare che ArcelorMittal desse seguito all’annuncio di abbandonare gli impianti, il nodo resta. Perché la reintroduzione parziale e a tempo inserita nel dl Salva-Imprese, voluto da Luigi Di Maio quando era al ministero dello Sviluppo Economico, non va giù a tutti i senatori del M5s. In 17 hanno firmato un emendamento che chiede la soppressione dell’articolo del decreto, ora in fase di conversione, dedicato all’immunità penale per il siderurgico di Taranto. Nel pomeriggio, si erano diffuse due ipotesi: lo stralcio della norma sul siderurgico o la questione di fiducia. Alla fine, si è optato per rimandare l’esame dell’intero decreto.

“Il problema c’è”, aveva ammesso il pentastellato Gianni Girotto, relatore del decreto. “Stiamo cercando di trovare la soluzione”, era stata la sua spiegazione in mattinata. Il voto nelle commissioni Industria e Lavoro al Senato era quindi slittato a giovedì mattina ritardando anche l’arrivo a Palazzo Madama. “La soluzione può essere di qualsiasi tipologia”, aveva aggiunto Girotto. Sull’immunità, il senatore M5s, Gianluigi Paragone, firmatario dell’emendamento soppressivo, a margine dei lavori delle commissioni, ha evidenziato che “continuerà a sostenerlo” ricordando che martedì sera l’argomento è stato affrontato nella riunione dei senatori pentastellati, che sono tornati a riunirsi anche mercoledì pomeriggio.

Ma il problema resta: senza quella norma, nessuno può escludere che ArcelorMittal non metta in campo una reazione pesante. L’azienda, tra l’altro alle prese con una congiuntura negativa del mercato dell’acciaio e in perdita di circa 150 milioni di euro al mese in Italia, era stata chiarissima dopo l’abolizione totale, inserita dal governo Lega-M5s nel decreto Crescita: “Così è impossibile gestire l’acciaieria”. E ora che la nuova maggioranza torna a balbettare sul tema, il colosso franco-indiano torna a farsi sentire.

Lo fa con l’ex amministratore delegato Matthieu Jehl, silurato martedì ma comunque presente – assieme al suo successore Lucia Morselli – durante l’audizione informale davanti alla commissione Attività Produttive della Camera. L’ex numero uno di ArcelorMittal Italia è stato chiaro: “È un tema sbagliato, non esiste. Tutti noi siamo responsabili di quello che facciamo”. Ma, sottolinea, “le regole del gioco che fanno parte della trattativa dall’inizio, dal 2014, però non si possono cambiare a metà partita. Per il gestore e i commissari, ha concluso Jehl, “serve una norma chiara che dica in che quadro possiamo gestire l’azienda”.

L’ex amministratore delegato ha poi fatto il punto sulle difficoltà di tenere i conti in ordine in Italia, dove l’azienda ha messo 1.300 persone in cassa integrazione ordinaria negli ultimi mesi. Rispetto alla firma dell’accordo sull’ex Ilva dello scorso anno, ha detto, “il cambiamento più grande è stato il contesto di mercato, che pesa moltissimo non solo sull’Italia, ma su tutta la siderurgia europea”. Il mercato dell’acciaio in Europa, ha proseguito Jehl, è “in picchiata” perché “il Pil non cresce in molti Paesi d’Europa e questo ha un doppio impatto per noi, perché il primo settore che va male è l’automobile che ha un impatto diretto sul nostro settore”.

Secondo l’ex capo dell’azienda, l’importante è che la politica metta in atto delle misure di “salvaguardia” perché il problema è che, rispetto all’acciaio che arriva dalla Cina, “l’industria siderurgica europea non è competitiva” anche se “vogliamo e possiamo esserlo, in Italia resta del lavoro da fare, ma le regole del gioco non sono uguali per tutti su prezzo di CO2 o possibilità di importare o esportare”.

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