“Uno dopo l’altro vedevo colleghi eccezionali gettare la spugna, fuggire all’estero o mettersi al servizio dei privati. Io ho ce l’ho messa tutta per restare in Italia ma, col senno di poi, loro ci avevano visto più lungo”. Carmela De Marco – 39 anni, pugliese di Specchia, 4mila abitanti nel Salento profondo – è ricercatrice in microrobotica all’Eth (Eidgenössische Technische Hochschule), il Politecnico federale di Zurigo, uno dei maggiori istituti di ricerca al mondo. Il curriculum parla da sé: laurea con lode in ingegneria biomedica, dottorato in nanotecnologie, decine di pubblicazioni a prima firma sulle riviste scientifiche più prestigiose. Eppure, al Politecnico di Milano, passava da un assegno di ricerca all’altro senza speranza di ottenere un posto da strutturata. “Ne ho collezionati cinque”, racconta, “uno per ogni anno dal 2009 al 2014, compenso variabile tra i 1.200 e 1.500 euro al mese. Il rinnovo dell’assegno era il “premio” per le mie buone idee, ma i meriti se li prendevano gli altri: se non hai un contratto a tempo indeterminato, i progetti di ricerca non li puoi firmare. Nel frattempo correggevo pacchi di compiti, seguivo le tesi, organizzavo l’agenda del professore. Era come stare in una palude, dove al posto di evolvere mi sentivo regredire ogni giorno”. Non solo, ma tanti anni di formazione accademica rendevano Carmela inappetibile anche per le aziende. “Ai colloqui mi facevano capire che ero ‘troppo’, che le mie conoscenze sarebbero state sprecate”, spiega. “Un curriculum come il mio spaventava i datori di lavoro, soprattutto perché temevano di dovermi pagare più di altri”.

La svolta arriva al momento di entrare nel sesto anno da assegnista, l’ultimo consentito dalla legge. Le strade, a quel punto, sono due: mollare o andare all’estero, come tanti altri prima di lei. “Ma se dovevo andarmene volevo che ne valesse la pena”, ricorda Carmela. “Così ho deciso di provare a vincere un finanziamento europeo con un progetto che avevo in testa da un po’, un sistema microfluidico a valvole magnetiche stampate in 3D”. Il bando, il Marie-Curie, è tra i più competitivi al mondo: migliaia di idee in gara, meno del 5% dei quali riescono ad accedere ai fondi. “Tutti mi dicevano che era un’impresa impossibile e io stessa, devo dire, non avevo molte speranze. Inoltre, per candidare il progetto, avevo bisogno di un’istituzione disposta a sostenerlo. Ho buttato il cuore oltre l’ostacolo e ho scritto a Bradley Nelson del Politecnico di Zurigo, uno dei leader mondiali della microrobotica, convinta che cestinasse la mia mail senza nemmeno aprirla. Peraltro – ricorda – gli avevo esposto il mio progetto completo, quindi avrebbe potuto tranquillamente appropriarsene e farlo sviluppare a qualcuno dei suoi…”. Invece Nelson approva l’idea e la incoraggia a partecipare: alla fine del 2015 Carmela vince il finanziamento. “La mail in cui mi comunicavano l’esito, che conteneva già il mio futuro contratto, era finita nello spam”, racconta. Nel maggio 2016, a 36 anni, la scienziata lascia Milano per il suo nuovo lavoro in Svizzera.

Al di là delle Alpi trova un mondo accademico che, dice, non è paragonabile a quello italiano. A partire dagli aspetti più banali: “Sembrerà strano, ma non potevo credere di avere un ufficio tutto per me, con un pc di ultima generazione fornito dall’università”, racconta. “A Milano ero abituata a lavorare in stanza con altre due o tre persone usando il mio portatile”. Anche il rapporto interpersonale è tutto diverso. “In Italia, anche da post-doc, non sei nient’altro che un’estensione dei tuoi professori: lavori per loro, riferisci a loro e sono loro a decidere se vai avanti o sei fuori. Niente di diverso da un tesista o da un dottorando, e infatti spesso le figure si confondono: gli studenti non ti vedono come un riferimento ma come un loro pari, i più bravi quasi come un concorrente. Qui invece il mio ruolo è ben definito e sono rispettata per quello che rappresenta la mia figura, cioè una via di mezzo tra un dottorando e un docente di ruolo. Posso avviare dei progetti in autonomia e avvalermi della collaborazione degli studenti, proprio come un professore. In più sono padrona del mio tempo, non devo rispondere a nessuno né prendere ordini dal barone di turno. Certo, esistono i momenti di confronto in cui devo rendere conto del mio lavoro e dei miei risultati. Ma so che verrò valutata in base a quelli e non ad altro”.

E d’altra parte, dice Carmela, la meritocrazia in Svizzera non è un concetto vuoto: “Conosco dottorandi che non hanno ottenuto il titolo perché non avevano risultati accademici adeguati – dice – mentre in Italia si tende a ‘dottorare’ tutti, anche chi non riesce a fare nemmeno tre pubblicazioni. Qui, poi, il progetto di ricerca è una cosa seria: lo elabora lo studente in autonomia, senza suggerimenti o spintarelle da parte dei prof, ed è valutato da una commissione indipendente. Per questo il titolo di dottore di ricerca conserva un certo prestigio, mentre in Italia non vale più nulla”. Da poco Carmela ha raggiunto uno dei risultati più importanti della sua carriera: ha elaborato una tecnica – battezzata “stampa indiretta 4D” – che consente di produrre strumenti medicali alla micro e nanoscala, utilizzabili per operazioni di precisione su feti o neonati. Il primo prototipo consiste in un micro-stent, una struttura cilindrica che serve a impedire occlusioni dei vasi sanguigni. “Ma le applicazioni possibili sono infinite – racconta entusiasta – come quelle nell’ambito delle terapie mirate con le staminali o con i farmaci chemioterapici, per evitare una loro assunzione sistemica. L’ambito più promettente, però, resta quello della microrobotica, per applicazioni di chirurgia microinvasiva. Mi piacerebbe, un giorno, tornare in Italia e mettere ciò che so fare al servizio del mio Paese”, ammette, “ma non credo che ne avrò mai la possibilità. Ho nostalgia di tante cose, prima di tutto del rapporto umano che qui in Svizzera è molto più freddo. Se ricevessi un’offerta la valuterei”.

Twitter: @paolofrosina

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