A distanza di sei anni dal suo bestseller autobiografico Chi non muore si rivede (Garzanti, 2013) Alberto Maggi è tornato a parlare in prima persona nel suo Due in condotta (Garzanti, 228 pagine, 16 euro). Il titolo introduce bene questo racconto inedito delle sue origini “fuori dalle righe”, perfettamente in linea con l’originalità d’approccio di questo “teologo innamorato della libertà”, come lo ha chiamato Vito Mancuso, abituato a spiegare come “leggere il Vangelo e non perdere la fede”, divenuto noto al grande pubblico anche come “frate eretico”, per le sue posizioni spesso osteggiate dalle gerarchie ecclesiastiche. Il libro nasce proprio dalla curiosa richiesta dei suoi lettori di saperne di più di quel Maggi prima del saio, degli appigli biografici con cui giustificare il suo modo unico, lui direbbe “entusiasta”, di vivere persino l’incombere della morte e la malattia, come ha raccontato in Chi non muore si rivede. “E’ vero in qualche modo il libro aiuta a capire perché sono così – risponde a ilfattoquotidiano.it ridendo -. E’ stato completamente inaspettato per me diventare prete, il disonore di una famiglia atea, anarchica. La riprova, per me, della presenza di Dio nella nostra vita”.

Dio però in Due in condotta arriva poco prima del finale. Il racconto è infatti soprattutto la storia di un figlio del 1945, nato “da due incoscienti”, come scrive Maggi con affetto: Anna e Alfredo, che si sposarono nel dicembre del ‘44 in una Ancona bombardata e semideserta “entrambi senza lavoro, senza soldi, senza casa, ma con tantissimo amore e tanta fiducia nella vita”. La storia di questa famiglia ci riporta al sapore di un’Italia che cantava nei luoghi di lavoro – memorabile il ricordo di Maggi del padre sarto che annunciava alle lavoratrici l’avvio della giornata con l’accompagnamento della Traviata – e vedeva le coppie ballare di fronte ad una tavola dove si erano appena consumate erbe del circondario assemblate nel celebre piatto “cucina con patate”. Un periodo, racconta quasi con nostalgia l’autore, dove il potere d’acquisto era basso e, forse in conseguenza, il valore delle relazioni superava quello degli oggetti.

In quell’Italia cresce il giovane Alberto Maggi, intelligente tanto quanto irrequieto e ribelle, in un susseguirsi di circostanze che vanno a costruire la sua visione aperta del mondo, come l’allattamento ricevuto da una zingara e da una prostituta compagne di stanza ospedaliera della madre rimasta a corto di latte. Esilaranti nel libro i ricordi del periodo scolastico, quando non riusciva a star seduto nel banco più di un’ora e per scansare un compito in classe provocò la rottura del riscaldamento centralizzato, finendo con le cinque dita del preside stampate sulla guancia, a classi riunite. “Ero un bambino che oggi avrebbe avuto il sostegno – ironizza il frate – Fortuna che ho avuto degli insegnanti intelligenti che hanno saputo capire la necessità di lasciarmi fare e dei genitori sempre complici”.

Dopo la scuola Maggi fa leva sulle sue competenze stenodattilografiche per guadagnarsi un posto nel mondo, fino a vincere a sorpresa un concorso in Comune a 18 anni. La sua vita sembra così completarsi nel più classico racconto del boom economico: impiego fisso, fidanzata, la passione per il ballo coltivata al punto da finire ad organizzare feste “segnalate dalla Buon Costume” in un salone del Pci. Un ritratto quasi da Jerry Calà antesignano. Fino al colpo di scena. Durante una notte di guardia nell’anno della leva militare, arriva la vocazione. “Dal frastuono sono arrivato al silenzio e lì, in quella condizione, si sente la mano di Dio, del regista – commenta a ilfatto.it -. C’è un regista nella nostra vita, ma non fa l’attore. Siamo noi gli interpreti e sta a noi cogliere i momenti concessi e viverli, perché poi passano e rischiano di non ripetersi”.

Quei momenti però possono destabilizzare. La scelta “di farsi prete” di Alberto Maggi, nel 1968, sconquassa infatti chi gli stava intorno, su tutti la sua famiglia, radicata nell’anticlericalismo fin da quel nonno Nazareno che nel letto di morte per un incidente sul lavoro fece fare dietrofront al prete pronto all’estrema unzione, accogliendolo col verso della “rigila” socialista “quando muoio io non voglio preti”. “Il problema per la mia famiglia era il Vangelo che gli era stato raccontato, inaccettabile – spiega Maggi – Infatti poi mi sono stati vicini e non si perdevano un’omelia. Hanno capito che io ero sempre lo stesso, razionale come mi avevano insegnato, e così sono ancora oggi: non credo se non tocco. E come spiego sempre non c’è nulla nei Vangeli di incomprensibile alla ragione umana”. Di certo restano incomprensibili e inaccettabili al protagonista del libro alcune regole e consuetudini ecclesiastiche riassunte negli aneddoti dell’aspirante frate Maggi, quando con lo stesso atteggiamento di sempre ha affrontato il percorso iniziatico del suo ordine religioso. Esilarante il racconto della bocciatura che lo bollò “inadatto alla vita religiosa” perché “di carattere entusiasta”. Forse una svolta finale, come la descrive Maggi stesso in una sintesi estrema quanto mai efficace: “Deluso dalla vita civile, da quella militare e perfino da quella religiosa, compresi che non dovevo attendermi un mondo ideale che fosse disposto ad accogliermi ma che dovevo costruirlo. Non aspettarmi il paradiso, ma tentare di realizzarlo”. Un bel messaggio universale, “eretico” o meno poco importa.

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