La vicenda sullo status giuridico da attribuire ai rider, i ciclofattorini delle consegne di cibo a domicilio per le grandi catene di distribuzione, non è solo italiana: è un fenomeno diffuso che coinvolge i paesi europei.

Negli ultimi mesi nelle aule dei tribunali del lavoro spagnoli si dibatte se considerarli come precari con la partita Iva in tasca, di fatto lavoratori autonomi, o come dipendenti subordinati. Manca una regolamentazione univoca del rapporto di lavoro, così i giudici spagnoli interpretano in modo divergente i principi generali da applicare ai casi specifici adottando decisioni contrastanti, se non contraddittorie. Tot capita, tot sententiae direbbe Cicerone, ed è proprio quello che accade.

Se nel mese di giugno un tribunale di Barcellona ha considerato un rider come autonomo dando ragione alle tesi dell’impresa Glovo, lo scorso 22 luglio un giudice del lavoro di Madrid ha risolto un maxi-giudizio in senso favorevole ai lavoratori. La causa ha visto contrapposti l’ente previdenziale iberico (la Seguridad social) e una multinazionale del food delivery, con intervento a sostegno dei rider di organizzazioni di tutela, come l’influente Ugt, lo storico sindacato di sinistra.

Per la 19esima sezione del tribunale madrileno non ci sono dubbi: il rapporto che lega le multinazionali ai ciclofattorini ha natura subordinata. Riconoscimento sbandierato in Italia dal ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, il quale ha sempre dichiarato la necessità di maggiori tutele per i lavoratori. In effetti qualche apertura si è registrata: ai rider si iniziano a garantire protezioni minime attraverso lo strumento della contrattazione collettiva.

In Spagna è ancora forte la pressione delle lobby del settore. La decisione del giudice di Madrid crea una breccia nel muro, e chi non si avvale delle app del food delivery per organizzare i propri pasti trova nella pronuncia una puntuale ricostruzione dell’intero sistema. Chiamata in giudizio era la società inglese Roofoods la quale, attraverso il marchio Deliveroo – conosciuto anche in Italia – pochi anni fa ha avviato, mediante una applicazione per cellulari, la promozione dei prodotti dei ristoranti convenzionati curando la mediazione tra i locali e i clienti e la consegna dei pasti. La società riscuote così il prezzo del menù dal consumatore con una commissione per la consegna pari a 2 euro e 50 centesimi per ordini superiori a 15 euro, oppure 4,50 euro per ordini inferiori.

Questo il rapporto esterno con convenzionati e col pubblico. Nelle relazioni interne con i ciclofattorini il giudice sottolinea ulteriori aspetti: ricevuto l’ordine, la società individua il rider con un algoritmo, avvalendosi di criteri predefiniti, primi fra tutti la prossimità con il luogo di consegna e le precedenti valutazioni del lavoratore. Quindi il rider svolge il servizio col mezzo preferito (solitamente bicicletta o scooter) e, in quanto titolare di partita Iva, presenta ogni 15 giorni le fatture per tutte le attività prestate. Sistema, questo, che ha consentito a Deliveroo di avere una struttura snella: solo 65 gli impiegati a busta paga nella sede di Madrid, distribuiti tra gli uffici marketing, amministrazione e il cosiddetto rider support, settore che assiste i fattorini in questioni pratiche quali forature, incidenti stradali, mancato reperimento dei clienti eccetera.

La sentenza ha preso in esame anche i vari contratti di volta in volta utilizzati dall’azienda per regolare i rapporti, vere “alchimie” giuridiche per eludere la subordinazione: si è passati dal rimborso delle spese per il combustibile alla voce propinas (le mance) da attribuire ai lavoratori. Ponendo alla base dell’istruttoria i verbali degli ispettori di lavoro, il giudice ha potuto apprezzare come i ciclofattorini abbiano ben poca autonomia. Certo possono decidere se montare in bici o in moto, come pure la rotta da seguire per la consegna, oppure sono persino liberi di rifiutare l’ordine. Tale ultima facoltà incide però non poco nel successivo “gioco degli algoritmi”, penalizzandoli nelle future valutazioni datoriali.

Una volta accettata la consegna – secondo il tribunale di Madrid – il ciclofattorino deve attenersi a rigorose istruzioni aziendali con poco margine di discrezionalità. “Di fatto” si legge nella corposa sentenza “manca qualsiasi organizzazione imprenditoriale nell’attività dei rider. Essi vengono formati dall’azienda con affiancamento di un istruttore, viene loro fornito – se necessario – un mezzo di trasporto: è la stessa società a gestire il sistema delle mance”.

La sentenza interessa gli oltre 500 rider di Deliveroo, ma forse avrà ripercussioni sull’intero sistema. In Spagna sono migliaia i ciclofattorini, molti giovani, molti immigrati del sud America, tanti in cerca di riscatto dopo la perdita in età matura del posto di lavoro. Tutti a partita Iva, pronti ad alimentare la saltuarietà e l’accessorietà del lavoro: è la gig economy, sistema nel quale la retribuzione – in Spagna si aggira mediamente intorno ai 1100 euro – dipende da un algoritmo.

Solo pochissime aziende delivery – tra esse Just Eat, leader mondiale quotata persino in Borsa – hanno preferito una politica di stabilizzazione dei rider anticipando le risultanze della sentenza. Un’eccezione: per molti ci vorranno ancora gambe buone per sbarcare il lunario e altri contenziosi per qualche diritto in più.

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