Un bambino di pochi mesi sguazza dentro la tinozza di plastica, è felice e spera che sua madre ce lo lasci il più a lungo possibile. Alle 11 del mattino il sole tripolino è micidiale e l’afa si fa irrespirabile. Il Centro di Detenzione di Tajoura si trova alla periferia sudorientale della capitale libica, o di quello che resta di un Paese diviso come le tessere di un puzzle, tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan

Poche ore fa, in piena notte, l’ex caserma utilizzata ai tempi di Muammar Gheddafi, oggi trasformata in prigione governativa, in parte a cielo aperto, per accogliere i migranti, è stata bombardata. Si parla di almeno una quarantina di morti, ma fonti diplomatiche tendono a raddoppiare, se non addirittura a triplicare il numero delle persone rimaste a terra. Tajoura è uno dei 23 centri di detenzione co-gestiti dal Dcim (il Dipartimento per il contrasto all’immigrazione clandestina) del Governo di Accordo Nazionale, guidato dal 2016 da Fayez al-Sarraj, e supportato dalle Nazioni Unite, dalla Turchia e dall’Italia, l’unico Stato a mantenere operativa una propria ambasciata in Libia. Il centro si trova a breve distanza dalla base militare di una milizia in supporto al Gna, la milizia di Bugra. Lo stesso obiettivo dell’attacco missilistico del maggio scorso, sempre diretto sulla base, ma che accidentalmente ha colpito la prigione.

I centri sono dislocati nell’intera Tripolitania, mentre quelli presenti all’interno dell’area metropolitana della capitale erano 8, poi ridotti a 6 a causa degli scontri armati degli ultimi mesi. Ora con Tajoura fuori uso, i circa 700 migranti ristretti nella prigione dovranno essere ancora redistribuiti nelle altre strutture. Gli altri hub, ossia centri principali in città, erano e sono Trik Al-Sikka, Trik al-Matar, Khoms, Zawiya, Ghanzour e l’ultimo nato Sabaa (tradotto significa ‘Il Settimo’).

All’inizio di luglio del 2018 la situazione a Tripoli, sotto il profilo della sicurezza, era relativamente tranquilla. I primi scontri tra milizie sono scoppiati alla fine di agosto e poi, dopo una tregua a cavallo con l’anno in corso, ripresi fino all’escalation militare voluta dal generale Khalifa Haftar, leader della Cirenaica, su cui vertono i sospetti sulla paternità dell’attacco di stanotte. In quei primi giorni di luglio di un anno fa anche l’aeroporto internazionale Mitiga (in realtà era uno scalo militare diventato ‘internazionale’ dopo l’attacco e la distruzione di quello ufficiale, 20 km a sud del centro di Tripoli, avvenuta durante le violenze settarie del 2014) era aperto e operativo. Sicurezza garantita a Tripoli, ma solo all’interno di una sorta di zona rossa.

Tajoura, quartiere lontano dal centro città, è sul limitare dell’invisibile ma palpabile confine tra legalità e terra di nessuno. Periferia sud-est, il centro si trova in un quartiere poco abitato, tra macchie di vegetazione, ampi spazi desertici e una serie di compound militari dismessi, abbandonati o trasformati in prigioni autorizzate. Per avvicinarsi e per entrare all’interno dell’area detentiva non ci sono soldati o poliziotti del governo di al-Sarraj. I varchi sono gestiti da uomini in borghese, soldati di milizie ‘amiche’ su cui il leader del Gna deve fare completo affidamento per gestire il suo potere. I miliziani imbracciano fucili e si tengono in contatto con il campo attraverso radio ricetrasmittenti a cui comunicare gli accessi. Ottenere il permesso ad entrare non è scontato, “dipende anche dagli umori dei singoli” ci dice uno degli accompagnatori locali. Su una mura smaltata di bianco di fresco c’è l’intestazione scritta in inglese, le scritte nei tre colori della bandiera, verde, rosso e nero: ‘Centro di accoglienza contro l’immigrazione illegale gestito dal Ministero dell’Interno’. 

Dall’enorme parcheggio antistante si accede nel centro, un mega edificio squadrato, un parallelepipedo simile a un classico capannone industriale con poche e piccole finestre sbarrate da assi in ferro per non consentire le fughe. Il centro di detenzione è diviso in due settori: quello per donne e bambini e l’altro per gli uomini adulti, sopra i 14 anni. L’ingresso è regolato da una ampia porta scorrevole, mentre l’area è circondata in parte da un muro alto almeno tre metri e dal filo spinato. Nel giorno della nostra visita sono in corso delle vere e proprie ‘pulizie di primavera’, i migranti sono stati fatti uscire per disinfestare tutti gli ambienti e poi parcheggiati all’esterno, a caccia di ogni zona d’ombra possibile.

Il sole picchia duro, il caldo è a tratti irrespirabile. Nella parte maschile ci sono subsahariani in arrivo da quasi tutti i Paesi dell’Africa occidentale, dal Mali alla Costa d’Avorio, passando per Gambia, Nigeria, Burkina Faso e così via. Le loro storie sono simili nella loro drammaticità: il viaggio durissimo nel Sahara attraverso il Niger, da Agadez fino ai confini libici e infine le detenzioni. Chiedono aiuto, un aiuto che vada oltre quello ricevuto per la sopravvivenza da parte di poche ong, in particolare italiane, le uniche ancore di salvezza per questa gente disperata.

Nella parte posteriore del compound, oltrepassato un piccolo cancello, si accede alla zona femminile. A decine sono le giovani donne, anche giovani mamme, intente a badare ai loro piccoli e tra loro anche il bambino vivace che sguazza dentro la tinozza consunta sotto gli occhi stanchi della madre e delle guardie carcerarie governative. Il personale delle organizzazioni italiane fornisce beni di prima necessità per l’igiene, fondamentali in posti dove non si trova nulla per curarsi: sapone, dentifrici e soprattutto assorbenti. Le donne sono ammassate agli angoli del capannone dove sono disponibili spazi d’ombra, sedute sopra cumuli di materassini e coperte che in serata rientreranno nelle stanze di detenzione, una volta finite le disinfestazioni: “Non ci sono medici per curare le nostre malattie, se non fosse per le ong italiane qui dentro saremmo ridotte anche peggio. Aiutateci”, ci chiede una giovane donna di origini eritree. Indossa un vestito lungo e un velo color turchese ad avvolgere un viso bellissimo: “Vi prego, non lasciateci soli, fate qualcosa”, fa in tempo ad implorarci prima che le guardie ci chiedano di uscire. Fine della missione.

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