Milizie alleate con il governo sostenuto dalle Nazioni Unite hanno riconquistato Gharyan, cittadina a 90 chilometri a Sud di Tripoli. È il colpo di scena del 26 giugno nella guerra infinita per il predominio sulla Libia. Gharyan era considerata la principale base dell’Esercito nazionale libico (Enl), l’armata condotta dal generale Khalifa Haftar, il quale da aprile marcia sulla Tripolitania, la parte occidentale della Libia, con l’intento di prendersi il Paese. Un’impresa che al momento sembra infattibile. Anche sul piano del supporto internazionale, qualcosa si è incrinato in questi mesi. Negli Stati Uniti – Paese del quale Haftar è cittadino – l’uomo forte della Cirenaica è stato denunciato da quattro famiglie alla Corte federale di Washington per crimini di guerra, nonostante la stima che gode da parte del presidente Donald Trump. Solo nell’area del Golfo continua a mantenere inalterato il suo supporto.

Khalifa Haftar ha cercato di giustificare la sua ascesa come uomo forte – sia dentro, sia fuori la Libia – attraverso una martellante propaganda che lo dipingeva lontano dalle logiche della corrotta capitale, capace di combattere l’Isis e di garantire stabilità al Paese. Nulla di tutto ciò però sembra corrispondere al vero. Il Centro di ricerche Noria ha infatti curato un rapporto pubblicato dalla Global initiative against transnational organized crime (Gitoc) – rete mondiale di esperti di organizzazioni criminali transnazionali – di cui IRPI ha l’anteprima per l’Italia. Il titolo è “Economie predatorie nella Libia orientale – Il ruolo dominante dell’Esercito nazionale libico”, da cui emerge che anche Haftar, in Cirenaica, ha costruito un’economia clientelare, identica a quella che tanto criticata in Tripolitania. Tre sono i principali asset su cui basa l’economia: la distorsione di fondi pubblici a vantaggio di gruppi armati a lui fedeli, il contrabbando di materiale ferroso e di petrolifero, il traffico di esseri umani.

Il controllo di aree e infrastrutture petrolifere in Libia. Credits: Noria Research

 

Dopo essersi imposto quale unico vero soggetto politico nella Libia orientale e aver consolidato il controllo dei media e delle questioni religiose, l’esercito nazionale libico “è ormai in totale controllo dell’economia”, scrivono i ricercatori . Da settembre 2016 hanno infatti preso possesso delle principali infrastrutture petrolifere nella regione dell’Oil crescent, area nel nord-est e sede dell’80% delle risorse petrolifere libiche. La lunga mano dell’Esercito di Haftar ha raggiunto anche l’angolo opposto, quello sud occidentale, dove dallo scorso marzo controlla i giacimenti petroliferi di al-Sharara e al-Fil. I 1,7 milioni di barili esportati giornalmente prima della rivoluzione del 2011 sono però un lontano ricordo e oggi il Paese conta su introiti dall’oro nero per 4,5 miliardi di dollari, contro i 40 miliardi precedenti alla caduta di Gheddafi. Per sostenere un esercito di 70mila unità in un territorio più grande della Francia servivano dunque nuovi canali di approvvigionamento.

Uno di questi è il settore bancario, diventato “una delle fonti di finanziamento primarie dei gruppi armati libici, incluso l’esercito di liberazione nazionale”, scrivono i ricercatori del centro Noria. La chiave è l’emissione di lettere di credito da parte della Banca centrale libica. Solitamente una lettera di credito funge da garanzia di pagamento da parte di un importare nei confronti del venditore. Il caos in cui è piombata la Libia, tuttavia, rende pressoché impossibile la verifica della merce in entrata e, ammonisce la relazione, le lettere di credito vengono quindi utilizzate per l’acquisto di valuta forte (Euro incluso) nel mercato interno e smerciate principalmente verso Turchia, Emirati Arabi e Tunisia dove vengono vendute e successivamente reimmesse nel mercato nero libico. Il tutto a favore dei leader dei gruppi militari armati fedeli all’Esercito nazionale libico e con il beneplacito della Banca centrale, sebbene il trasferimento all’estero di grosse quantità di valuta forte sia proibita dalla legge libica. Il cambio ufficiale tra dinaro libico e dollaro americano è di circa uno e mezzo a uno, mentre nel mercato nero servono tra i 4 e 9 dinari per acquistare un dollaro. Secondo un documento confidenziale citato nella relazione, tra il 2016 e il 2018 il valore delle lettere di credito rilasciate dalle banche libiche nell’est del Paese ha superato il miliardo di dollari.

Uno studio del 2014 stimava la presenza nel Paese nordafricano tra le 12 e le 21 milioni di tonnellate di rottami metallici. Un tesoro di materia prima che alimenta la già prolifica industria metallurgica da ben prima della caduta di Gheddafi e che rappresenta uno dei settori di produzione principali della Libia. Per proteggerlo, il governo di transizione nel 2012 impose il blocco delle esportazioni dei rottami. I quali continuano a crescere, viste le espropriazioni arbitrarie di aziende, depositi, magazzini e proprietà private da parte dell’Esercito nazionale libico. Quanto l’egemonia militare dell’Enl sia funzionale alle sue attività economiche lo dimostra l’esenzione dal divieto di esportazioni metalliche di cui gode dalla fine del 2017, concessa proprio dal Governo di transizione. Il settore metallurgico è essenziale per la sopravvivenza di Haftar e del suo esercito: secondo la relazione, riceve circa 60 dollari per ogni tonnellata esportata, la quale viene poi rivenduta a 150 dollari (il prezzo di mercato è invece di circa 260 dollari). Con il controllo dei porti nord-orientali, l’Enl ha chiuso il cerchio e blindato l’intera catena di montaggio e “detiene ormai il monopolio dell’esportazione di materiali metallici”.

Simile è la gestione di una terza lucrosa linea di finanziamento. Il contrabbando di derivati petroliferi “era pratica comune durante la dittatura precedente e continua tutt’oggi attraverso i confini con l’Egitto, il Sudan, il Ciad, il Niger e la Tunisia”, scrivono gli analisti, confermando la mancata rottura con il regime di Gheddafi. Il controllo dei giacimenti è delegato a milizie armate fedeli all’Enl, il quale in cambio della loro fedeltà chiude un occhio sulle operazioni di contrabbando. Nel sud del Paese il prezzo ufficiale per un barile è di 30 dinari libici. Quello contrabbandato verso il Ciad è venduto invece a 1.200, di cui le milizie intascano circa il 30%.

Ma dal 2014, avverte la relazione, “il contrabbando è diventato meno redditizio e più complesso a livello logistico rispetto al traffico di esseri umani e droga”. Aggiungendo che “l’Enl ha garantito appoggio militare e politico a gruppi militari affiliati che operano lungo le rotte del traffico di esseri umani”. In questo modo hanno raggiunto due obiettivi. Il primo è espandere la propria influenza in tutta la Libia consolidando alleanze con gruppi armati locali e, per estensione, con altri poteri locali. Il secondo, la strategia ha permesso ai gruppi suoi alleati di prendere il controllo delle rotte, rafforzare le proprie attività e cancellare ogni concorrente economico e militare”.

Il distretto chiave è Kufra, vertice sud-orientale della Libia, al confine con Egitto, Sudan e Ciad. È una zona da sempre tormentata da conflitti tribali tra Tebu (con i quali anche l’Italia, con il ministro Minniti, ha cercato di stringere accordi) e gli Zway. I primi si sono fatti appoggiare da truppe di mercenari sudanesi. I secondi hanno cercato nell’esercito di Haftar un sostegno, dopo una storia di vicinanza con il governo di Tripoli. Dal 2012 all’ottobre 2015 questa situazione non ha mai avuto un vero vincitore, ma da allora l’impasse si è risolta con la comparsa di una nuova milizia, quasi interamente Zway, promossa dall’Enl: la Subul al-Salam. Oggi sono i principali trafficanti di uomini e di droga di quel settore della Libia.

La rotta più sicura e quindi anche più redditizia è infatti quella che parte dal Corno d’Africa e raggiunge il nell’angolo a sud-est del Paese. Qui i migranti, si legge nella relazione, sono noti per saldare il pagamento in anticipo e in valuta forte. E anche in questo caso emerge il comportamento fuori da ogni convenzione Onu del Direttorato per combattere l’immigrazione illegale (Dcmi), struttura del ministero dell’Interno libico (che risponde al governo di Serraj) preposta alla gestione dei centri di detenzione per migranti. Nel rapporto si legge che sudanesi, egiziani e ciadiani vengono abbandonati nei pressi del confine con il loro Paese, “in condizioni non sicure”. Eritrei e somali, invece, vengono fatti proseguire: una fonte interna del Dcmi spiega che ad accompagnarli spesso sono cittadini qualunque e non funzionari ministeriali. Secondo fonti locali interpellate dai ricercatori, “la chiusura della rotta del Mediterraneo centrale dopo gli accordi tra la Libia e l’Europa non ha interrotto il flusso di migranti, che resta simile a prima”, in particolare a Sud.  L’ennesima conferma che i veri trafficanti, in Libia, appartengono a milizie che sfruttano il mercato per pagare il conflitto civile, in un circolo vizioso senza fine che alimenta solo violenza.

www.irpi.eu

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