“In Italia puoi essere formato quanto vuoi, ma se non hai conoscenze non lavori. Qui, dopo un mese di invio curricula, posso fare ciò per cui ho studiato con una paga più che dignitosa”. Marco Sollazzo ha 30 anni, viene da Roma, è un enologo e da tre anni vive in Australia. Dopo oltre sette anni di studi e con numerose pubblicazioni alle spalle, è stato costretto a trasferirsi all’estero per inseguire il suo sogno, nonostante l’Italia sia il primo produttore al mondo di vino. Una scelta non semplice, ma che, dice, lo sta facendo “crescere tantissimo”. “Qui anche se non sei nessuno ma meriti, l’ascensore sociale funziona”, spiega.

La sua passione per la natura ha radici lontane. “Ho sempre preferito – racconta – gli studi pratici a quelli teorici. Così alle superiori ho scelto un istituto tecnico agrario che permetteva, con un anno in più, di acquisire la qualifica di enotecnico”. Unica pecca: dal secondo anno non era più previsto lo studio della lingua inglese, che comunque, racconta, “per me era un incubo”. “Passati i sei anni avevo una qualifica lavorativa ma, visto che ero bravino a scuola, decisi comunque di intraprendere la carriera universitaria”. Così Marco continua il suo percorso nel mondo del vino, laureandosi nel 2011 in Tecnologie alimentari con specializzazione in viticoltura ed enologia. “D’estate, durante le pause universitarie, riuscivo a trovare lavoro come operaio per la vendemmia. Così mettevo insieme la teoria con la pratica. Non ho mai pensato di avere talento, ma ho sempre compensato con la determinazione”, racconta. Poi, dopo la triennale, decide di proseguire gli studi. “Non c’erano molte opzioni. Ci sono solo tre atenei che offrono una specialistica in viticoltura ed enologia. Così ho scelto Asti, affrontando la mia prima esperienza fuori casa”. Il risultato è eccellente. Marco si laurea nel 2013 con il massimo dei voti e ottiene la pubblicazione della sua tesi. La strada per un posto da ricercatore è spianata ma lui preferisce investire in altro. “Avevo conosciuto persone impegnate nel mondo scientifico che dopo 10 anni di precariato si trovavano a dover lottare per ottenere fondi privati per le proprie ricerche – spiega –. Una vita che non faceva per me. Così ho accantonato il posto da ricercatore e mi sono buttato a capofitto nel mondo del lavoro”.

La situazione in Italia, però, è deludente. “Ho capito che il curriculum contava poco. Le aziende cercavano solo giovani enologi da assumere con contratti opinabili in cui si finiva a lavorare come cantiniere-operaio”. Marco ripiega allora su un piano B: l’estero. “Non sapevo l’inglese, ma ho deciso di investire i miei risparmi in un corso di lingua”. Dopo quattro mesi di full-immersion a Dublino, lavorando di giorno e frequentando corsi la sera, Marco torna in Italia con l’amore per la lingua. “E pensare che da piccolo ne ero disgustato. Dopo il mio rientro ho iniziato a lavorare per qualche ditta nostrana, ma ho subito capito l’andazzo – dice amareggiato –. Alcune aziende ti considerano troppo specializzato. In altre entri solo se hai conoscenze. Così ho guardato su internet quali fossero le prime vendemmie disponibili nel resto del mondo e le opzioni erano due: Australia o sud America”.

La ricerca di Marco è frenetica. “Mandavo anche 500 mail al giorno, tanto che ho dovuto aprire un altro account perché quello che avevo già era sovraccarico. Avevo paura di perdere quel po’ di inglese che avevo imparato. Cercavo ‘Australian winery’ su Google e poi mandavo il curriculum e una presentazione a tutte le aziende che trovavo”. Le prime risposte non si fanno attendere. Marco nel giro di poche settimane ha già sei appuntamenti telefonici con altrettante aziende australiane. “E pensare che in Italia molti neanche rispondono alle mail”, commenta. Dopo diversi colloqui la scelta finale è fra tre aziende. “Solo una di queste mi offriva un contratto da assistente enologo per tre mesi a 22 dollari l’ora più gli straordinari – racconta Marco –. Quasi il doppio dell’Italia in pratica. Così ho scelto lei”. L’impatto con l’altra parte del mondo non è semplice, ma Marco alla fine si ferma sei mesi (il massimo secondo i visti australiani) prima di rientrare in Italia, dove spera ancora di trovare lavoro nei vigneti che tanto ama. “Sono tornato avendo messo da parte quasi 7mila euro e ho ricominciato a mandare curricula alle aziende vinicole italiane”. L’impatto ancora una volta è stato deludente. L’unica offerta di lavoro, infatti, è da parte di una stessa azienda con la quale Marco ha già lavorato, come operaio per la vendemmia, quando andava ancora alle superiori. “Mi offrivano una paga addirittura più bassa di quella che prendevo a 18 anni. Ho capito che non c’era più niente da fare e che l’Italia stava completamente fallendo. Dovevo ripartire”.

Oggi Marco vive ancora in Australia dove è tornato, dopo la prima esperienza stagionale nel 2015, come lavoratore fisso nel 2016. Grazie alla fiducia dell’azienda vinicola che lo ha assunto e che ha garantito per lui, ha ottenuto un visto permanente e guadagna oltre 50mila dollari l’anno, facendo il lavoro dei suoi sogni. Eppure, nonostante l’Australia, dice, sia molto interessante dal punto di vista naturalistico, l’Italia gli manca. “Sono arrabbiato e amareggiato perché nonostante la mia esperienza, nonostante l’Italia sia la prima produttrice al mondo di vini, nonostante il sacrificio dei miei per farmi studiare, io sono costretto a lavorare fuori – conclude Marco –. Se mi offrissero un lavoro a pari condizioni tornerei. Ma non è così semplice, mi mancano le ‘spinte’”.

Articolo Precedente

Istat, “persi” 420mila italiani dal 2008 Fico: “È a rischio il futuro del Paese”

next
Articolo Successivo

“Il nostro progetto per non fare emigrare i manager di domani. Le nostre aziende hanno bisogno di loro”

next