Chissà cosa ricordano, che cosa rimpiangono, quelli che oggi ricordano e rimpiangono Enrico Berlinguer. Non i militanti superstiti, ormai canuti, del Pci di allora. Gli intellettuali, i commentatori, i politologi. Credo che ricordino e rimpiangano un grosso equivoco. Rimpiangono una specie di Michail Gorbaciov italiano. Un leader che stava transitando da un lato all’altro del muro, un socialdemocratico in fieri. Di fatto un Achille Occhetto, un Massimo D’Alema, un Walter Veltroni, meno pasticcione del primo, meno sprezzante del secondo, più concreto del terzo. Comunque destinato a portare il corpaccione dell’elefante rosso, secondo la definizione di Giampaolo Pansa, nella terra promessa del mondo senza alternative, della fine della storia, del liberismo liberalismo.

Ora sappiamo che la parabola politica di Berlinguer si spezzò anticipatamente e chiunque voglia ipotizzarne le mancate traiettorie nel mondo dei se e dei forse tenderà a forzare per adattarle ai suoi desideri. Ma come si fa ad esaltare (per me giustamente, sia chiaro) il leader della questione morale, il leader dell’austerità, il leader dello scontro sulla scala mobile, il leader della contrapposizione frontale a Bettino Craxi, il leader che promette agli operai della Fiat il suo appoggio in caso di occupazione delle fabbriche, dal punto di osservazione dell’oggi. Quell’uomo voleva (anche sull’Europa e la moneta unica) un percorso diametralmente divergente da quello che il mondo e il paese hanno poi adottato. Voleva e praticava valori radicalmente opposti da quelli che si sono fatti “Stato” nei 35 anni che ci separano dalla sua morte.

Oggi quelli che come Matteo Renzi hanno l’inaudito coraggio di dire che Berlinguer portò la sinistra dalla parte giusta della storia, cioè dalla loro parte, gli fanno un torto duplice. Potrebbero raccontarcelo come un Gorbaciov. Un inconsapevole agente che porta in un decennio a compimento un ramo sterile della storia. Da premiare con un bel Nobel, un paio di film e qualche pubblicità in tassì, per ringraziarlo di avercela resa più facile di quanto non stiano facendo i cinesi. Un vinto portato fortunamente via dal destino prima del declino, a differenza del russo. Sarebbe dal loro punto di vista, dall’alto di ciò che hanno fatto e detto dopo più onesto, perfino più giusto. Ma in realtà la voglia (mascherata dall’elogio) è quella di equipararlo ai liquidatori fallimentari che da Mosca a Londra, da Berlino a Parigi a Roma hanno architettato la bad company in cui poter seppellire il loro passato senza compromettere il loro presente. A scapito del nostro futuro.

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